Natale, tempo di vacanze, di affetti, di buoni propositi, di priorità, di strategia, di realizzazione.

Dal Natale all’Epifania anche il nostro mondo del “fare” (lavoro, scuola, impegni, …) finalmente rallenta.

La nascita di Gesù Cristo è miracolosa anche in questo senso.

Oggi, tutti noi, viviamo in modo estremamente frenetico, incerto, senza tempo e senza sicurezze.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di un periodo “di stacco”.

Tempo per noi.

Per ciò che è veramente importante.

Famiglia, amicizie, svago, viaggio.

Ma anche silenzio, relax, noi stessi.

Il rischio è di non approfittare di questo periodo soft.

Sprecare questa occasione è molto più facile di quanto si possa pensare.

Se rimaniamo schiavi della frenesia, anche questo periodo lo vivremo come un “dovere”, come un “fare”, come un “riempire” ad ogni costo.

Invece dovremmo metterci in ascolto.

Ecco subito la domanda: in ascolto di cosa?

No, non di cosa, ma di chi. Due chi con la c maiuscola.

Il primo chi è noi stessi, il nostro inconscio. Quella parte di noi che durante il resto dell’anno non ha spazio, non ha mai tempo, è sempre subissato dall’efficienza del nostro “fare”.

Il nostro inconscio può parlarci con voce più forte se rallentiamo il nostro ritmo usuale. Se ci diamo tempo. Se gli concediamo il giusto tempo.

Ecco allora che riusciremo a percepirlo nuovamente, a sentire le sue considerazioni. Potremo finalmente riallinearci e riprendere a vivere maggiormente integramente.

Ci parlerà delle nostre esigenze, dei nostri bisogni, delle nostre emozioni, delle nostre priorità.

E ci parlerà anche del secondo, e più importante, chi con la c maiuscola.

Colui che ri-nasce ogni anno il 25 Dicembre: il nostro buon piccolo Gesù Bambino.

Colui che ci insegna a come vivere nell’amore, l’amore infantile, l’amore pieno, l’amore eterno, l’amore che sa affidarsi totalmente al Padre.

Quel bambin Gesù che sa aprire il nostro cuore, sa trasmetterci quei princìpi guida ormai inascoltati, azzittiti dall’efficienza quantitativa quotidiana. Quei princìpi guida che sarebbero in grado di farci vivere sereni, liberi da ogni frustrazione e schiavitù, liberi da ogni preoccupazione.

Sono ormai princìpi che abbiamo dimenticati, che sembrano desueti, che (purtroppo) iniziamo a ritenere “da sfigati”.

Dentro di noi abbiamo forte l’esigenza di “andare oltre”, di lasciare una traccia, di vedere un nostro lascito al bene comune.

L’uomo si sente realizzato quando è in grado di aiutare i propri cari, il prossimo, quando si sente utile, quando percepisce il proprio valore aggiunto.

Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ci indica quanto sia prioritario il bene comune per una piena vita cristiana.

Molti utilizzano questo periodo per rinvigorire, ricominciare o iniziare un percorso di meditazione. Ciò sempre per rivalutare il senso della nostra esistenza, per ribilanciare il nostro essere, per riportarci a vivere le nostre priorità e non limitarci a vivere le nostre e altrui urgenze operative.

La preghiera, rispetto alla meditazione, ha però un qualcosa in più: sposta l’asticella da noi stessi agli altri, dall’umano al divino, dall’attuale a ciò che c’è oltre.

Papa Benedetto XVI ci ha indicato quanto “… tutta la vita si raccoglie verso un incontro.”

Per noi cattolici, la nostra morte è un mero passaggio. Traumatico in quanto ci destabilizza, si passa dalla nostra zona di comfort che abbiamo imparato a conoscere e con cui abbiamo, nel bene e nel male, imparato a convivere, a ciò che (forse) ci è ancora sconosciuto. La fede ci dice che questo passaggio, seppur traumatico, non è altro che la nostra unione eterna con Gesù Cristo, lo Spirito Santo ed il Padre.

Ebbene, nel discorso della montagna, Gesù ci indica quanto le beatitudini possono portare il Regno dei Cieli (la comunione con Lui) già qui sulla terra.

Ebbene, le beatitudini ci indicano un diverso punto di vista, un differente approccio alla vita, una direzione completamente difforme dagli obiettivi/miti che ci vengono proposti dal main stream di questa nostra civiltà (terrena).

“Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”

Povero in spirito, consolatore, mite, giusto, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace.

Sono le caratteristiche dell’amore con la a maiuscola. Sono le caratteristiche di qualcuno che vuole andare oltre sé stesso per apportare valore aggiunto sistemico di lungo periodo per tutta la comunità. Sono le caratteristiche di chi vive verso una direzione che supera il livello quantitativo di breve termine.

Sono le caratteristiche che ci consentono di vivere serenamente nonostante tutte le difficoltà e sfide della vita. Spostano il focus di tutta la nostra esistenza.

In America sta prendendo piede il cosiddetto “essenzialismo” o “minimalismo”: è un altro modo (seppure umano) per farci comprendere quanto “il troppo, stroppia”.

Solo togliendo (obiettivi, necessità, impegni, cose materiali) possiamo riscoprire le nostre priorità: ciò che ci realizza pienamente come persona umana.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo affermava già in tempi antichi!

La nostra dignità, l’essere stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, non può essere limitata dal “fare” o dal “possedere”. Dobbiamo imparare ad andare oltre questa visione materialistica.

San Giovanni della Croce, nella sua “Salita al monte Carmelo”, ci indica la corretta interpretazione del digiuno. Il digiuno non è (solo) quello dalle carni in Quaresima. Il digiuno va interpretato come “distacco” vero e proprio dal livello quantitativo-numerico di breve periodo.

Ecco allora che possiamo comprendere la parabola di Gesù «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».

Se viviamo la quantità materiale, siamo bramosi, siamo attaccati alle cose, alla materialità, alla carnalità della nostra vita terreno e, conseguentemente (ma per nostra esclusiva scelta), non potremo accedere al Regno dei Cieli, all’unione con Gesù, alla beatitudine.

Ecco che, forse allora, sarebbe meglio impiegare questo prossimo tempo di vacanza riprendendo il vero viaggio: quello interiore.

Chi lo farà con la meditazione, chi vorrà riprendere la preghiera, comunque questo viaggio parte dal guardarsi dentro, dal ricercare le nostre vere priorità, dal riscoprire come desiderare in modo ottimale, dal ricercare la pace con noi stessi, con gli altri e con il nostro Dio.

E può continuare solo se non ci rifaremo travolgere da quella frenetica routine che ci si riproporrà a partire dal 9 di Gennaio con la ripresa della nostra operosità-efficiente.

La tua volontà non coincide sempre con il tuo interesse. E ciò a tua insaputa.

Il #dRzOOm ha un sogno: quello di fare sempre e solo l’interesse della sua famiglia cliente.

Purtroppo, capita spesso che per riuscirci occorra introdurre una iniziale conflittualità relazionale per generare un minuscolo livello di entropia in grado di scardinare l’equilibrio omeostatico della famiglia cliente che altrimenti rischierebbe di divenire disfunzionale.

È una frase complicata: vediamo di spiegarla meglio.

L’essere umano, per istinto di sopravvivenza, vive cercando di risparmiare il più possibile la sua energia in modo da non doverne essere sprovvisto in caso di bisogno.

Questo istinto viene attuato vivendo per “schemi comportamentali”

Ma cosa sono gli schemi comportamentali?

Sono comportamenti “abitudinari” che, rivelatisi vincenti nel passato, vengono replicati automaticamente in situazioni ritenute equivalenti e/o similari.

Più ci si ritiene “vincenti” e più questi comportamenti automatici diventano “rigidi”.

Ciò è un bene per la preservazione dell’energia decisionale, sarebbe invece un male nel caso in cui la situazione non fosse esattamente equivalente e/o similare alle precedenti.

Ma cos’è la “energia decisionale”?

Il prendere delle decisioni consapevoli e coscienti richiede energia: qualunque livello di importanza possa essa avere.

Avete presente i personaggi famosi che vestono sempre esattamente nello stesso modo? Eliminano la dispersione della loro energia decisionale legata alla scelta del loro abbigliamento quotidiano.

Quando le situazioni possono essere equivalenti e/o similari?

Qui sta il nocciolo del problema.

Il livello di equivalenza/similitudine con le situazioni affrontate nel passato non è mai coincidente.

Conseguentemente: quando è utile vivere per “schemi comportamentali”?

Gli schemi comportamentali sono utilissimi se e solo se si rimane sufficientemente flessibili a monitorarne l’esito in modo obiettivo e pronti a “correggere il tiro” nel caso in cui il risultato non sia quello desiderato.

Può sembrare strano ma questa correzione non è mai facile.

Infatti, quando il risultato non è quello desiderato l’uomo prova un senso di frustrazione che rischia di generare una modalità di analisi che il #dRzOOm denomina, per renderne evidente la disfunzionalità, “struzzo”.

Ecco, quindi, che il risultato non desiderato non dipende dalla scelta o dal comportamento attuato bensì da ogni sorta di variabile esterna. Scatta quindi un atteggiamento vittimistico e di ostinazione basata sul convincimento di essere nel giusto, di non essere colpevoli del risultato.

Questi schemi comportamentali nascono da un “equilibrio omeostatico” cioè da un equilibrio interno che cerca di preservarsi a tutti i costi e, conseguentemente, di tenere al di fuori ogni variabile esterna.

No ad un equilibrio statico

È, perciò, un equilibrio di tipo meramente statico. Conseguentemente, è molto pericoloso.

Per evitare questa vera e propria trappola, l’uomo ha bisogno di mantenere un certo grado di apertura alle variabili esterne, una certa capacità di analisi fuori dagli schemi, una oggettività di discernimento. Solo in questo modo egli potrà adattare il suo comportamento alla realtà esterna.

Perché comunque la nostra realtà non è altro che una delle tante percezioni della vera realtà, che è troppo complessa per essere accolta integralmente dal nostro cervello.

Ecco, quindi, che quando l’uomo affronta dei “risultati indesiderati” rischia di determinare una sua volontà che confligge con il suo vero interesse.

relazione cliente-consulente

Quando un cliente ricerca un consulente, questi retaggi comportamentali sono evidentemente all’opera.

Esiste quindi una volontà del cliente: basata sul suo livello di conoscenza della materia, sui suoi schemi comportamentali passati, sulla sua percezione di “essere (stato) vincente”, su un suo risultato desiderato.

Tuttavia, può capitare, che questa sua volontà venga (o meglio, debba essere) messa in discussione dal consulente.

Consulente: esecutore o generatore di consapevolezza

Perché può originarsi questa conflittualità più o meno accesa?

i)                   Differenza di conoscenza/informazioni/expertise

ii)                  Analisi obiettiva/oggettiva non schiava degli schemi comportamentali passati

iii)                Messa in discussione del percorso con cui poter ottenere il risultato desiderato

iv)                Messa in discussione anche il risultato desiderato stesso

Differenza di conoscenza/informazioni/expertise

Lungi dal #dRzOOm il pensare che il consulente abbia sempre ragione, ma altrettanto sbagliato ritenere che “il cliente abbia sempre ragione”, soprattutto nella consulenza.

Se il cliente avesse una sua volontà pienamente consapevole, il consulente non potrebbe svolgere la sua funzione poiché potrebbe solo diventare il braccio operativo del cliente.

Ma come può il cliente essere pienamente consapevole? Può avere lo stesso livello di conoscenza del consulente? Può avere e dominare le stesse informazioni? Può avere la stessa expertise e la stessa esperienza?

In alcuni casi il cliente ben potrebbe aver approfondito così tanto il suo specifico caso da aver originato una sua volontà specifica. Purtuttavia la sua anche approfondita conoscenza è limitata a quella specificità e rischia di non cogliere tutte le interazioni esistenti che potrebbe renderla disfunzionale.

Uno degli errori che vengono commessi da parte dei consulenti è quello di voler soddisfare a tutti i costi la volontà del cliente. In questo modo il consulente evita ogni conflittualità, acquisisce il cliente, emette fattura per ciò che gli è stato richiesto.

Logica di breve termine.

Se poi la perfetta consulenza tecnica ha centrato la volontà del cliente ma non ha soddisfatto il suo interesse profondo, nel lungo periodo il cliente non sarà soddisfatto dell’operato del consulente e la fiducia verrebbe compromessa generando una conflittualità futura ben maggiore.

Inoltre, poiché il consulente affronta le sue tematiche nel loro complesso ogni sacrosanto giorno, le studia, le approfondisce, le applica quotidianamente, egli ha un expertise enormemente più elevata grazie proprio a questa “massa critica” di casi analizzati e risolti.

Ecco perché il consulente deve assumersi il dovere professionale di mettere in discussione la volontà iniziale del cliente. Ciò è ancor più vero quando il cliente non è il singolo disponente bensì la sua intera famiglia.

Analisi obiettiva/oggettiva non schiava degli schemi comportamentali passati

Proprio per il fatto che il cliente deve affrontare un problema, la sua volontà lo porterebbe ad affrontarlo secondo i suoi schemi comportamentali che, a volte, possono rivelarsi disfunzionali.

Proprio per questo il consulente dev’essere sufficientemente attento ad analizzare la situazione attuale in base alla sua esperienza distaccata. Proprio perché distaccato dalla situazione che sta vivendo il cliente, proprio perché profondo conoscitore della situazione e delle sue problematiche, proprio perché ha già aiutato a risolvere situazioni similari, secondo il #dRzOOm il consulente ha l’obbligo di mantenersi lucido e di mettere in discussione i punti di partenza raccontati dal cliente stesso. Ciò in quanto egli ha delle percezioni della realtà che potrebbero essere falsate da avvenimenti passati, magari anche concatenati, ma che nulla hanno a che fare con la situazione attuale. Per risolvere un problema occorre guardare al futuro e non al passato. Conseguentemente il consulente deve verificare le informazioni prospettate dal cliente stesso.

Messa in discussione del percorso con cui poter ottenere il risultato desiderato

Alcune volte può capitare che il cliente abbia già in mente anche il percorso che secondo lui potrebbe essere risolutivo e che sia andato dal consulente con l’unico scopo, inconscio, di sentirsi validare queste sue valutazioni.

Anche in questo caso, secondo il #dRzOOm, il consulente deve apportare maggiore consapevolezza per rendere visibili ulteriori scenari che possono motivare la situazione attuale, rendere evidenti le conseguenze di ogni scenario risolutivo e, solo conseguentemente, prospettare più azioni risolutive analizzandone i pro ed i contro. In questo modo il cliente non solo avrà ottenuto vero valore aggiunto ma inoltre avrà anche acquisito maggiore consapevolezza.

Messa in discussione anche dello stesso risultato desiderato

Infine, può accadere che il risultato stesso che il cliente voglia ottenere possa non essere realizzabile oppure sostenibile nel tempo. Ciò in quanto capita spesso che si diano per scontate alcune variabili soggettive connesse con gli altri attori che vivono o causano il problema che si sta analizzando. Purtroppo, nella maggioranza dei casi il cliente non ha consapevolezza del fatto che la soluzione deve tenere conto anche dell’interesse degli altri attori, delle loro percezioni, delle loro possibili reazioni e delle connesse conseguenze. Per questo, sempre secondo il #dRzOOm, il consulente dovrebbe accompagnare il cliente a valutare approfonditamente le conseguenze che le sue desiderate azioni risolutive possono avere sulle altre parti in causa per verificare tramite scenarizzazione ciò che prevedibilmente potrebbe generarsi.

Consulente come generatore di consapevolezza

Se tutto questo è vero, il cliente non solo non dovrebbe partire dal presupposto di rivolgersi ad un consulente con il mero scopo di fargli fare ciò che ha in mente bensì dovrebbe porsi preventivamente il problema di come poter trovare un consulente “generatore di consapevolezza”.

 Quella consapevolezza che gli serve per evitare di scavarsi la fossa sotto i piedi proprio a causa delle sue volontà!

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Il testamento: questo sconosciuto.

“Al mondo di sicuro ci sono solo la morte e le tasse” – Benjamin Franklin

Questa citazione così conosciuta evidenzia due aspetti: i) nessuno di noi è immortale su questa terra, ii) le tasse sono delle certezze.

Il #dRzOOm ha deciso di partire da questa affermazione per trattare una tematica ahimè troppo trascurata.

La morte è una certezza

Dal momento stesso in cui nasciamo e mettiamo piede in questa vita terrena, siamo sicuri che prima o poi moriremo.

Solo acquisendone la giusta #consapevolezza questa certezza smette di fare paura ed anzi sprona a dare il meglio di sé ogni sacrosanto giorno.

Altrimenti, pur sapendolo viviamo la nostra quotidianità come se fossimo indistruttibili.

Se questo nostro approccio alla vita ci consente di abbracciare la sfida, dall’altro lato ci fa commettere parecchi errori.

Anzitutto, non pensare alla propria caducità ci porta a vivere rischiando di sprecare buona parte del tempo che abbiamo a disposizione in cose futili, superficiali, non rilevanti, non importanti per il nostro stesso giudizio.

L’utilizzo del tempo

Purtroppo, però il tempo non possiamo accumularlo per poterlo poi utilizzare quando più ci serve.

Il tempo passa, scorre, incurante dei nostri impegni, delle nostre frustrazioni, dei nostri sogni.

Sta a noi decidere consapevolmente come allocare nel migliore dei modi il nostro tempo suddividendolo fra ciò che è importante, ciò che è urgente e tutto il resto.

Inoltre, rischieremmo di non considerare alcuni aspetti legati al “dopo di noi”. No, non alla Legge sul dopo di noi che introduce delle agevolazioni fiscali in alcuni determinati casi bensì a ciò che succederebbe qualora dovessimo venire a mancare.

Perché i tribunali sono così pieni di cause ereditarie? Cosa le origina? Perché ereditare un bene può generare più frustrazione che non serenità? Perché può accadere che durante la successione si scopre un patrimonio molto più grande di quello che si conosceva? O viceversa, perché può accadere che durante la successione si scopre che il defunto era “pieno di debiti”? Perché molte volte affrontando una successione viene spontaneo dire “se solo ci avessimo pensato prima”?

Le bucce di banana

La risposta è molto semplice: vi sono alcune “bucce di banana” a cui generalmente non si pensa.

Ma non è tutto: generalmente le frustrazioni nascono da “aspettative” che, seppure legittime, non hanno trovato riscontro nella realtà oppure che erano diventate delle “pretese” illegittime.

Ovviamente, la complessità normativa, civilistica e fiscale, non aiuta affatto.

Se non ci pensi tu, ci pensa la legge

Ma è colpa della normativa oppure del fatto che “non ci abbiamo pensato prima”?

Già, perché se non ci si pensa prima è la Legge a decidere tutto. Si chiama “successione legittima”.

Il volere del defunto, non essendo conosciuto e reso evidente, non conta nulla. Non solo non conta nulla, ma con la successione legittima alcuni familiari diventano comproprietari di ogni singola unità patrimoniale.

Non avendoci pensato prima, questi familiari non sono stati decisi dal defunto. Vengono decisi dalla legge. A prescindere dal legame affettivo, dalla condivisione di una vita intera o di pochi eventi nel corso di una vita, dal legame di amicizia, dalla volontà di aiutare una persona/ente meritevole. La legge decide esclusivamente in funzione della composizione del nucleo familiare.

Conseguentemente sia i beneficiari che le modalità con cui ereditano sono prestabiliti dalla legge civile successoria.

In alcuni casi potrebbe anche essere indifferente in quanto gli affetti più cari ben potrebbero essere proprio i familiari del nucleo familiare e nessun altro. Tuttavia, anche in questo caso esistono delle bucce di banana. Una in particolare: la comproprietà.

le rigidità della Comunione ereditaria

Ogni familiare previsto dalla normativa diviene proprietario pro-quota in comunione con tutti gli altri.

Questo aspetto può essere irrilevante nel caso di un patrimonio finanziario. Quote di fondi e di sicav possono essere tranquillamente ripartite fra tutti gli eredi e “divisi” fra di loro. Già per i titoli nominativi in caso di lotti minimi si potrebbero avere delle difficoltà di attribuzione in esclusiva ad uno dei comproprietari. Vero che la comproprietà può essere sciolta grazie ad una divisione ereditaria che ripartisca i beni a favore esclusivo di un solo titolare. Purtuttavia i valori devono essere equivalenti e, salvo rinunce, in alcuni casi non ci sarebbe la possibilità di conguagliare il familiare che otterrebbe un valore inferiore. Comunque sia, la divisione ereditaria dev’essere concordata all’unanimità da tutti gli eredi. Aspetto non da poco.

Le cose si complicano in caso di patrimonio immobiliare.

Essere titolare di un appartamento con altri due familiari può diventare una vera e propria schiavitù. Il disallineamento fisiologico degli interessi dei tre proprietari non può essere gestito in modo ottimale: un appartamento non può essere diviso. Se il patrimonio immobiliare fosse composto da tre appartamenti, i tre familiari si ritroverebbero comproprietari insieme in ogni appartamento. In questo caso, come abbiamo già visto per il patrimonio finanziario, la divisione ereditaria può venire in soccorso ma i valori degli appartamenti non saranno mai coincidenti e, conseguentemente rimane il problema dei conguagli.

Inoltre, vi è sempre il legame affettivo che genera più o meno valore per il singolo appartamento. Se due o tutti e tre gli eredi avessero una preferenza e non giungessero ad un accordo ecco che la divisione ereditaria non potrebbe essere attuata.

Ancora meno facile è il caso nel quale il patrimonio è composto dalla o dalle imprese di famiglia.

Appare dunque evidente come nel “dopo di noi” sia bene avere una condivisione fra i vari familiari. Proprio quella condivisione che non viene presa in considerazione “prima”.

Ma chi me lo fa fare?

Quando si parla di pianificazione e gestione patrimoniale, #dRzOOm inizialmente si sente sempre chiedere “ma chi me lo fa fare”?

Questa domanda viene posta sia dal consulente (finanziario, avvocato, commercialista) che ha contattato il #dRzOOm per dei suoi clienti, sia dal disponente stesso.

Si ha paura a condividere questi ragionamenti con gli altri familiari pensando, erroneamente, che si possa evitare di farlo. Solo rarissimamente il disponente è convinto di non voler condividere queste tematiche nonostante il fatto che dopo il suo decesso questa mancata condivisione in vita genererà delle cause ereditarie o delle frustrazioni rilevanti per tutti i suoi familiari. In questi casi la motivazione è il principio de “me ne lavo le mani” coscientemente per evitare di dover affrontare la conflittualità familiare in vita.

In tutti gli altri casi l’origine della domanda nasce da una “ignoranza” di fondo (intesa come essere allo scuro di ulteriori informazioni).

Non conoscendo la normativa e le conseguenze che essa genera, ecco che si preferisce rimanere nelle proprie convinzioni ed evitare il dialogo familiare.

Ma è vera serenità? E dopo la morte del disponente, cosa vivranno i familiari superstiti?

Puoi pensarci tu: prima!

L’alternativa alla successione legittima è la “successione testamentaria”.

Con il testamento il disponente rende evidente, nel pieno rispetto delle norme giuridiche, le proprie volontà.

Se con la successione legittima la norma individua i beneficiari e la ripartizione dell’intero patrimonio a loro favore, con la redazione del testamento il disponente può disporre liberamente a favore di chiunque (uno degli altri familiari o addirittura uno sconosciuto) una certa quota del patrimonio.

Quota disponibile

La dimensione di questa quota, cosiddetta “disponibile”, è determinata dall’ordinamento civilistico in funzione del nucleo familiare del disponente ciò in quanto i familiari cosiddetti legittimari (coniuge, discendenza in linea retta, ascendenza in linea retta), in funzione della composizione del nucleo familiare, hanno diritto ad una quota minima di eredità (cosiddetta “quota di riserva”).

Quindi questa quota di disponibile può essere utilizzata per far beneficiare un familiare più di altri oppure per conguagliare in caso di disallineamenti di valori nel tempo, oppure ancora per assegnare un valore patrimoniale ad una persona cara che non fa parte dei familiari od ancora a favore di un ente benefico.

I legati contro la comunione ereditaria

L’importanza del testamento poi non è solo l’apparizione della quota disponibile ma, soprattutto, la possibilità di individuare dei “legati” cioè delle assegnazioni in proprietà piena di un bene ad un singolo familiare. Con una corretta pianificazione quindi, anziché lasciare ogni bene in comproprietà, si possono lasciare i beni suddividendoli fra i vari familiari in modo tale che ognuno di essi rimanga proprietario unico del singolo bene. Ovviamente i valori dei beni assegnati ad ogni familiare dev’essere equivalente a quello degli altri ma, nei casi in cui ciò non fosse possibile oppure per libera scelta, la quota di disponibile può essere utilizzata per le compensazioni necessarie.

Conseguentemente con il testamento le bucce di banana degli esempi precedenti possono essere evitate grazie alla quota disponibile ed i legati.

Minimizzare la frustrazione dell’evento

Ciò evita problemi e frustrazioni negli eredi in quel momento in cui l’emotività è già messa duramente a prova per la scomparsa del caro defunto.

Anche quando i familiari vanno d’amore e d’accordo, il disallineamento nel tempo degli interessi in gioco è naturale. Se poi consideriamo l’effetto “deriva generazionale”, l’aumentare dei comproprietari nelle varie generazioni, ecco che il singolo bene non sarebbe più di nessuna utilità per nessuno.

Il testamento, dunque, pur non essendo la panacea di tutti i mali, è un istituto giuridico di indubbia utilità.

Perché allora sono poche le persone che lo redigono?

Per paura? Per ignoranza? Per menefreghismo?

#dRzOOm scarta a priori la terza ipotesi.

Avendo già trattato di quanto possa essere utile acquisire consapevolezza della propria eventuale morte per poter vivere al meglio, ecco quindi che ci concentriamo ulteriormente sulle peculiarità del testamento.

Chi può redigerlo?

Il testamento dev’essere redatto dal singolo testatore. Il cosiddetto testamento congiunto è nullo.

Conseguentemente è la singola persona che lo redige e lo sottoscrive. Questi dev’essere nel pieno delle sue facoltà di intendere e di volere, deve avere piena capacità di agire e non deve essere manipolato o costretto.

Come dev’essere redatto?

Può essere redatto in modo “olografo” cioè interamente scritto a mano da parte del testatore.

Può essere consegnato, aperto od in busta chiusa, al notaio, cosiddetto “testamento segreto”.

Può essere redatto da notaio, cosiddetto “testamento pubblico”.

Il #dRzOOm consiglia sempre l’intervento notarile per una disamina delle volontà testamentarie: prevenire è meglio che curare.

Certo, costa un po’ di più, ma tale costo è ampiamente compensato dalla certezza giuridica dell’espressione delle volontà.

Quando dev’essere redatto?

Il testamento può essere redatto in qualunque momento, purché nel pieno delle proprie facoltà.

Nella prassi anglosassone, andrebbe redatto intorno ai cinquanta anni. Nella prassi latina ciò è largamente disatteso. Non solo l’età media del testatore è molto più alta, ma addirittura solo il 15% delle persone che avrebbero utilità lo redigono realmente.

È un atto unilaterale e, come tale, può sempre essere revocato. Questo è uno degli aspetti per il quale il #dRzOOm consiglia l’intervento notarile: il testamento successivo revoca quello precedente.

Ciò può alimentare “conflittualità”, “contestazioni, “occultamenti”, “falsificazioni”: l’occasione fa l’uomo ladro.

Proprio per questo, in qualunque forma, il testamento deve sempre avere l’indicazione della data e della firma del testatore.

Meglio quindi farne uno in più che uno in meno.

Ciò nel senso che in alcuni casi per la paura di non poterlo fare in modo “definitivo” non viene fatto del tutto: niente di più sbagliato.

Il testamento va redatto e revisionato ogni qual volta sia necessario (per eventuali modificazioni del nucleo familiare – premorienze – o del patrimonio – riorganizzazioni o eventi imprevisti).

Cosa deve prevedere?

Il testamento deve prevedere sicuramente la firma e la data.

Inoltre, può prevedere disposizioni di natura patrimoniale ma anche di natura meramente morale.

Può disporre per l’integralità del patrimonio oppure solo per una sua parte (per il residuo occorrerebbe così fare riferimento alla successione legittima).

E’ consigliabile che preveda l’attribuzione del per legato al singolo beneficiario al fine di evitare le comproprietà e che utilizzi l’eventuale quota di disponibile (totalmente o parzialmente) per poter consentire eventuali conguagli che potrebbero rendersi necessari in caso di disallineamenti dei valori dei singoli beni nel tempo.

Tutte queste caratteristiche rendono il testamento uno strumento imprescindibile per la pianificazione patrimoniale successoria.

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L’Impresa è fatta di persone: soprattutto quella di famiglia.

Ok: adesso cosa faccio?

Quante volte capita di sentirci frustrati in impresa perché non sappiamo cosa dovremmo fare? Generalmente non perché non abbiamo nulla da fare, bensì perché abbiamo troppe cose da fare.

Ecco che quindi capita di finire la giornata senza nemmeno essersi accorti del passare del tempo ma senza aver finito nessuna delle cose che ci eravamo prefissati per questa giornata. Potremmo aver fatto tanto, tantissimo eppure troneremmo a casa frustrati.

Da dove nasce questa frustrazione?

Probabilmente nasce da un mix di concause. Tuttavia, secondo il #dRzOOm due di queste possono essere deleterie. Esse sono di differente livello:

  • Micro: l’individuo ha difficoltà a vivere le proprie priorità lavorative;
  • Macro: l’impresa non rende sufficientemente chiaro all’individuo il suo ruolo, le sue funzioni ed il loro scopo.

Il problema Micro deriva dal fatto che purtroppo si è abituati a vivere per “urgenze” e, nella vita di oggi, tutto sembra essere un’urgenza.

Però, se non si presta attenzione a graduare queste urgenze, esse sembrano tutti pariteticamente urgenti.

Così non è.

Vivere per urgenze

Vivere per urgenze vuol dire rimanere schiavi del paradigma “fare”. Vuol dire sentirsi in colpa di dedicare del tempo a ragionare sul “cosa e come” fare. Vuol dire vivere in balia degli eventi, delle richieste, di obiettivi altrui. Vuol dire vivere da comparsa nelle vite di chi ci circonda.

Se non ci si consente di ritagliarsi del tempo periodicamente per analizzare il cosa si debba fare ed il come sarebbe meglio farlo, le urgenze continueranno imperterrite ad agire su di noi. Vivremo sempre come dei pompieri che sono accerchiati da tantissimi focolai e che non riescono a spegnerne nemmeno uno definitivamente.

Fra tutti i compiti che devono essere svolti esistono delle priorità. Ma se non si ha chiari in sé stessi quali sono le reali priorità, ci si sentirà sempre in colpa per aver lasciato indietro qualcosa.

Eppure, proprio per non voler lasciare dietro nulla, ecco che non si porta a termine quasi nulla. Si è sempre alla rincorsa dei lavori da fare che, mano a mano, comunque si accumulano.

Multitasking?

La causa è proprio questa paura di non riuscire ad essere sufficientemente multitasking.

Controintuitivamente, fare la giusta scala delle priorità consente di spegnere definitivamente l’incendio più pericolo per poi affrontare il secondo, poi il terzo e così via. Cosi facendo gli incendi spenti non si riaccenderanno più e, piano piano, il numero degli incendi diminuirà gradualmente fino a consentire di ritrovare la propria serenità professionale.

Impresa: entità collettiva

Dal punto di vista Macro, l’impresa è un’entità collettiva. Come tutte le entità collettive essa è ben di più della somma delle singole individualità ma ogni individuo deve dedicarsi al proprio ruolo in modo corretto sapendo di essere un tassello della catena collettiva. Da ogni dipendente dipende il lavoro di un altro dipendente.

Conseguentemente, per mantenere un adeguato livello di efficacia e di efficienza è necessario che l’entità collettiva dedichi del tempo a pianificare correttamente ed a monitorare periodicamente la propria organizzazione interna.

Attenzione, questa pianificazione/monitoraggio non è di interesse esclusivo delle multinazionali anzi!

Ogni impresa che abbia più di due persone ha bisogno di dedicare del tempo alla comunicazione interna, alla condivisione della strategia di lungo termine, alla pianificazione di breve termine ed all’interazione sinergica fra i singoli individui.

Se fosse vera una regola, più l’impresa è di piccole dimensioni e più questa criticità non viene presa in considerazione.

Per il #dRzOOm è evidente quanto, per ogni impresa, tutti i numeri di bilancio dipendono dai comportamenti operativi quotidiani dei dipendenti. Infatti, proprio i numeri di bilancio non sono altro che la rappresentazione contabile-numerica della capacità relazionale dei propri dipendenti, la quale è funzione diretta del livello di consapevolezza individuale.

#Consapevolezza: questa sconosciuta

Come sempre la #consapevolezza impatta ovunque.

Tornando però alla modalità organizzativa, esistono due strumenti ampiamente conosciuti ma largamente disattesi: l’organigramma ed il funzionigramma.

Generalmente le imprese conoscono questi due strumenti, eppure pensano erroneamente che i) siano documenti definitivi, ii) siano documenti formali.

Organigramma e Funzionigramma

Esistono l’organigramma ed il funzionigramma per la certificazione qualità, per la responsabilità penale ex d.lgs. 231/01, per l’ufficio del personale e per ogni altra normativa e/o certificazione.

Purtroppo, ahimé, difficilmente esistono in azienda un solo organigramma ed un solo funzionigramma che siano reali e riscontrabili nell’operatività quotidiana.

Senza questi documenti ecco che quindi sia l’impresa, sia il singolo dipendente non hanno chiaro i propri ruoli, le proprie responsabilità, le proprie funzioni, i propri obiettivi, le proprie priorità, le proprie interazioni con gli altri dipendenti.

L’organigramma, infatti, dovrebbe rendere evidente il livello gerarchico, le relazioni, le responsabilità organizzative mentre il funzionigramma dovrebbe invece rendere evidente l’attività attribuita, le funzioni, le competenze necessarie e le responsabilità.

L’insieme di questi due documenti servono proprio per originare una chiarezza sia a livello Macro che a livello Micro. Ma, ovviamente, non devono essere due documenti astratti dalla realtà, rigidi, formali o “una tantum”. Sono documenti che necessitano di revisione ogni qualvolta vi siano entrate-uscite di personale, riorganizzazioni interne, nuove strategie operative o innovazione nel modello di business dell’impresa.

Addirittura in alcuni casi può capitare che nelle piccole società non si abbia alcuna formalizzazione di questi due documenti e nelle società di grandi dimensioni il rischio è invece che siano meramente formali, poco conosciuti dagli individui e, conseguentemente, non si colgano le enormi utilità.

Chiarezza condivisa delle proprie responsabilità

L’utilità di questi due strumenti è invece fondamentale: una chiarezza condivisa di livello, ruolo, funzioni, responsabilità e interazioni.

Senza questa chiarezza in impresa esisteranno sempre frustrazioni, confusioni, equivoci, non detti, sovrapposizioni, buchi di responsabilità, criticità.

Conseguentemente, sia l’individuo, sia l’entità e sia la proprietà dell’impresa non potranno mai vivere sereni la propria attività lavorativa.

Questa confusione genera soprattutto una tendenza allo “svilimento” del ruolo individuale all’interno dell’organizzazione. Solo individui con grande capacità di automotivazione riusciranno ad evitare questo svilimento che porterebbe all’adagiarsi a fare solo il cosiddetto “compitino”. Questo adagiarsi innescherebbe dei comportamenti “scaricabarili”, andrebbe contro la meritocrazia e genererebbe un livellamento delle competenze e della proattività verso il basso. In questo modo si lavorerebbe per urgenze, per richieste esterne, per imposizioni, per istinto, per scadenze anziché per priorità.

Solo la chiarezza condivisa delle priorità individuali che consente di far fare all’organizzazione un salto di qualità: non solo dal punto di vista organizzativo ma anche da quello della soddisfazione del personale.

Consapevolezza = impegno

Infatti, più l’individuo si sente parte di un progetto, ne condivide il perché, ne comprende l’utilità e più vi si dedica spontaneamente con un impegno senza pari garantendo maggiore efficacia, maggiore efficienza e risultati migliori.

Solo avendo chiara la sua utilità per l’impresa e conoscendo l’intero processo imprenditoriale il singolo dipendente può sentirsi parte integrante di essa, partecipe, coinvolto ed ecco che si impegnerebbe al meglio per soddisfare le proprie funzioni, per essere proattivo, per migliorare la propria modalità lavorativa senza alcuna paura nel modificare alcune procedure o per scegliere consciamente le proprie priorità per eventuali critiche da parte di superiori, colleghi o sottoposti. Ciò in quanto egli saprebbe fin dall’inizio che la sua professionalità è al servizio e per l’utilità di tutti.

Solo in questo modo l’individuo può riuscire a “mettere sé stesso” nel proprio ruolo aziendale. A qualunque livello gerarchico egli appartenga.

In ogni lavoro il singolo individuo trova alcune funzioni semplici, utili, foriere di entusiasmo ed altre che sono difficili, frustranti, inutili. Lo stesso dicasi per l’imprenditore.

Ecco, dunque, che inconsciamente le ultime rischiano di essere tralasciate, messe in secondo piano. Eppure, ogni singola funzione esiste perché ha un’utilità: se non per il proprio lavoro, si deve fare in quanto è utile per altri ruoli dell’impresa. Conseguentemente, accantonarle rischia di generare un problema agli altri dipendenti e/o di non consentire il raggiungimento degli obiettivi d’impresa o di correre dei rischi ulteriori.

Sentirsi utili per l’intero progetto

Per questo occorre conoscere le peculiarità dell’intero progetto imprenditoriale, le responsabilità ed i rischi del proprio ruolo e di come esso interagisce con gli altri per l’attuazione del progetto imprenditoriale nel suo complesso. Solo conoscere il perché di alcune funzioni esse possono essere affrontate con il sorriso sulle labbra anche quando risultano frustranti. È questione di rispetto: per gli altri colleghi, per il proprio datore di lavoro, per sé stessi.

Oltre alla comprensione delle proprie responsabilità, è poi opportuno conoscere le modalità per incrementare la propria automotivazione anche quando si è sottopressione.

Proattività, pianificazione e controllo, miglioramento delle proprie attività, implementazione quotidiana, liste emozionali sono solo alcuni degli strumenti che consentono di migliorare la propria motivazione e, conseguentemente, la propria soddisfazione sul lavoro.

E nel Italian(!) Family Business?

Tornando all’utilità della chiarezza, secondo il #dRzOOm, essa vale ancora di più quando si parla di Family Business.

Infatti, nell’impresa di famiglia oltre alla confusione di ruoli, funzioni e responsabilità, esiste anche una confusione fra legame familiare e ruolo in impresa. In alcuni casi esiste anche una “paura” sia interna che esterna: sono qui perché ho il cognome del fondatore oppure perché ho le giuste competenze? Dimostro quotidianamente agli altri che mi merito questo ruolo? Cosa si aspettano gli altri da me? Cosa si aspetta l’azienda da me? Quali sono le mie priorità, le mie funzioni, le mie responsabilità?

Queste paure potrebbero generare dei comportamenti drastici: voler dimostrare a tutti i costi che “so tutto io” oppure rassegnarsi a vivere all’ombra del cognome familiare.

Nei Family Business questo atteggiamento risente anche di un’ulteriore criticità: nelle relazioni fra i vari familiari operativi in impresa, infatti, si rischia anche la confusione fra “relazione familiare” e “relazione professionale. La prima è determinata dalla storicità relazionale fra i due familiari (nata fuori dall’impresa), la seconda è determinata dalla storicità relazionale fra i due familiari in essere all’interno dell’impresa.

Ovviamente poi queste “confusioni” di ruoli rischiano di generare una bomba atomica in occasione del passaggio generazionale.

Ciò capita soprattutto quando, non esistendo un funzionigramma reale, l’accesso in impresa dei familiari della seconda generazione genera una sovrapposizione/mancanza di competenze necessarie all’impresa. Si ampliano le conflittualità a causa di equivoci, non detti, fraintendimenti, superficialità sia all’interno dei familiari che fra questi ed i dipendenti terzi.

Per evitare questa situazione spiacevole occorre dedicare il giusto tempo per il corretto passaggio generazionale al fine di poter coniugare le necessarie competenze con il legame familiare nonché per evitare, appunto, mancanze e/o sovrapposizioni.

Poi c’è il passaggio manageriale

Infine, l’ultima considerazione del #dRzOOm su questo tema è relativa al cosiddetto passaggio manageriale.

Infatti, non esistendo il reale funzionigramma, l’imprenditore ha difficoltà a riconoscere il vero valore ad ogni dipendente. Ciò, oltre agli altri rischi, potrebbe generare una disattenzione all’età anagrafica dei dipendenti “chiave”. Anche la sostituzione di dipendenti particolarmente importanti per i risultati aziendali (per capacità, know-how, storicità, competenze) dev’essere affrontata con la dovuta attenzione.

Solo con la costruzione di una giusta cultura d’impresa, con un’adeguata selezione, formazione dei dipendenti e con un corretto passaggio manageriale le imprese possono sopravvivere all’età anagrafica dei propri collaboratori.

Ecco, quindi, perché il #dRzOOm cerca sempre di fare chiarezza: sia in impresa che negli individui. Altrimenti come potrebbe l’attività imprenditoriale/professionale generare serenità sistemica di lungo periodo e non continue frustrazioni quotidiane?

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Se vivi l’azienda, deleghi la famiglia. Se vivi la famiglia, deleghi l’azienda.

L’azienda e la famiglia sono sicuramente i luoghi, o forse meglio gli ambienti relazionali, dove viviamo la stragrande maggioranza della nostra esistenza.

Famiglia e Impresa: frustrazioni o serenità?

Questi due pilastri della nostra vita sono fonte di frustrazioni o fonte di serenità?

Per il #dRzOOm non è un quesito banale.

Quante volte la quotidianità ci ruba letteralmente il tempo necessario anche solo per fare una valutazione di merito?

Probabilmente in alcune occasioni della nostra vita viviamo impresa e famiglia in modo estremamente soddisfatto, altre volte in modo assolutamente frustrato.

Ma quanto tempo dedichiamo a riflettere su questi stati d’animo? Quante volte ci prendiamo il tempo necessario per assaporare pienamente la serenità della nostra famiglia o della nostra azienda? Quante volte siamo grati per questo dono? Quante volte la facciamo percepire in modo esplicito anche ai nostri familiari/collaboratori magari condividendo la nostra gioia?

E quando siamo frustrati: quante volte dedichiamo parte del nostro tempo a fare un’analisi condivisa di quali potrebbero essere le problematiche da doversi affrontare? Quante volte ci riuniamo per un confronto trasparente con familiari/collaboratori al fine di individuare le possibili cause e, conseguentemente, le possibili soluzioni? Quante volte riusciamo ad anticipare l’origine di problematiche che rischierebbero di diventare conflittuali?

Problem solving protattivo

In azienda, generalmente, non si può rischiare di non affrontare un problema divenuto evidente e, conseguentemente, si organizzano riunioni di “problem solving” per individuare la soluzione possibile. Comunque, rischiando di essere in ritardo.

Probabilmente, ponendoci questi quesiti, soprattutto con riferimento alla famiglia, rischiamo di scoprire che dedichiamo ben poco tempo a queste domande così fondamentali per la nostra serenità individuale: perché?

Per il #dRzOOm il problem solving è ora che diventi “proattivo”.

Saper leggere fra le righe della quotidianità, esercitarsi a percepire in anticipo i campanelli d’allarme per evitare che la situazione possa scappare di mano, estendersi fino ad analizzare periodicamente i macro-trends che circondano l’attività dell’impresa di famiglia nonché le relazioni familiari stesse: questo è il senso del problem solving proattivo.

Ma se anche in impresa queste riflessioni vengono affrontate, soprattutto quando la criticità si è già ben radicata, in famiglia quand’è che poniamo la stessa attenzione, a queste riflessioni?

Il consiglio di famiglia

Ad esempio: esiste un “consiglio di famiglia”?

Se in impresa dovrebbe esistere il “consiglio di direzione” (più ampio e meno formale del cda), perché la famiglia non dovrebbe avere un “consiglio di famiglia”?

Anche questa può sembrare una domanda inutile, eccessiva, teorica ma così non è, almeno nell’esperienza del #dRzOOm.

Cos’è più importante: l’impresa o la famiglia?

Possiamo vivere la famiglia senza prestare la stessa attenzione che prestiamo all’azienda? Il fine dell’azienda non è (anche) quello di consentire alla nostra famiglia di vivere serenamente?

Il #dRzOOm, nel suo alter ego me stesso medesimo, pur avendo un solo figlio di quasi otto anni, ha un “consiglio di famiglia” che, ovviamente, per ora nella maggioranza dei casi è composto solo dai genitori ma che, già per alcune tematiche, viene allargato anche al figlio. Può essere introdotto in modo informale, ma un po’ di formalizzazione non guasta mai (se non è eccessivamente formale e scarsamente sostanziale).

Il potere di “auto-imporsi” del tempo a cadenza almeno mensile (o più ravvicinato se emerge una situazione nel durante) per ragionare insieme su problematiche più o meno superficiali della vita quotidiana familiare, consente di evitare “escalation” rilevanti.

Se all’inizio si fa fatica a trovare qualche argomento da analizzare, ben presto si scopre che ognuno ha delle tematiche che gli stanno a cuore e che se non condivise alimenterebbero la classica goccia che prima o poi farebbe traboccare il vaso.

E’ vero che la vita quotidiana dell’azienda e della famiglia sono diverse, ma vi sono alcune similitudini che è bene tenere in considerazione.

Anche in famiglia, infatti, esistono dei compiti da dover essere portati a termine. Possono sembrare di importanza limitata, ma non lo sono.

I compiti familiari insieme alla gestione della finanza familiare sono le due case principali dei divorzi perché fanno decadere la relazione dal livello di “amore” al livello di “frustrazione”.

A chi piace vivere nel disordine? Mangiare scatolette? Vivere nello sporco? Possiamo permetterci di non monitorare la finanza di famiglia? Possiamo non pagare delle bollette? Possiamo spendere più di quello che guadagniamo? Possiamo indossare vestiti non stirati? Possiamo non far riparare gli elettrodomestici o i mobili di casa? Possiamo non ricordarci di fare benzina nelle auto di famiglia? Possiamo non portare i nostri figli a scuola? Non fargli fare sport? Non provvedere agli attuali bisogni di didattica a distanza?

In sostanza, ogni famiglia ha dei membri, delle risorse necessarie, delle risorse da redistribuire, delle funzioni da ripartire sui vari famigliari per essere svolte in serenità in funzione delle proprie capacità, età, propensione.

Il funzionigramma di famiglia

Si ha chiara l’analisi della propria famiglia? Delle funzioni che devono essere svolte? Delle risorse necessarie? Esiste un “funzionigramma familiare” che sia reale, chiaro e condiviso?

Come si fa ad avere chiarezza di “chi fa cosa, come e quando” senza questo strumento?

Marshall Goldsmith sostiene, a ragione, che l’ambiente familiare è il luogo in cui ci sentiamo più al sicuro e, conseguentemente, il luogo in cui prestiamo meno attenzione.

Eppure, la famiglia è un’entità collettiva e, conseguentemente, come l’impresa necessita di avere chiarezza gestionale.

Come l’impresa è un’entità collettiva gerarchica con differenti modelli di leadership ma comunque gerarchica.

Negli ultimi anni però questa gerarchia l’abbiamo male interpretata.

Gli psicologi hanno individuato i “genitori spazzaneve” ed i genitori “elicottero” che per i loro ottimi buoni propositi, deresponsabilizzano i propri figli rendendoli particolarmente fragili alla vita interdipendente con l’ambiente esterno.

Se i genitori spazzaneve sono quelli che prevengono ogni possibile rischio che il figlio può incontrare nella vita, arrivando addirittura a sostituirsi a lui per quanto possibile (facendo o correggendo i compiti prima che vengano consegnati, ad esempio), i genitori elicottero sono quei genitori che si dedicano a portare il proprio figlio da un luogo all’altro pur di tenergli impegnata l’agenda quotidiana, per evitargli di potersi annoiare.

Purtroppo, sono due errori molto comuni che generano delle disfunzionalità nei figli che diventano non responsabili e non creativi. In sostanza, vivendo sotto una campana di vetro, alla minima difficoltà che incontreranno (perché il genitore non sempre riesce a sostituirsi a lui) non avranno la capacità di affrontarla e si faranno abbattere da essa anche se, in realtà, fosse una difficoltà minima.

Ciò in quanto non si è creata l’abitudine a risolvere gradualmente le difficoltà a cui il figlio andrà incontro.

Proprio per questa ragione il “family think approach” immagina la famiglia come una cooperativa: ogni singolo familiare avrà i propri compiti per il bene dell’intera famiglia. In funzione dell’età, delle capacità, delle possibilità, delle propensioni, delle ritrosie.

Può sembrare banale, ma così non è. Occorre un salto di paradigma. Siamo cresciuti in una società in cui vi sono stereotipi disfunzionali in questo senso. È la donna che deve fare tutto in casa: mestieri, seguire i figli, cucinare. I figli devono essere accuditi, riveriti, avere tutto a disposizione. I mariti devono poter rilassarsi in casa.

Ma così ci scaviamo la fossa sotto i piedi. Già perché un conto è se la donna non lavora e sente dentro di sé la vocazione ad essere la regina del focolaio (immagine di serenità di altri tempi), altrimenti se lavora ecco che iniziano a sorgere alcuni problemi: sia che abbia sia che non abbia questa vocazione.

Già perché, come premettevamo, il tempo è definito.

Una donna che lavora a tempo pieno e deve poi provvedere da sola a tutte le esigenze della casa, prima o poi sclera, prima o poi le sue modalità relazionali diventeranno rudi, astiose, recriminose, frustrate. Non è colpa sua. La colpa è di una inconsapevolezza di tutti i familiari, lei compresa.

La famiglia è una entità collettiva che eroga si risorse a favore di tutti i familiari, ma per farlo occorre che tutti i familiari contribuiscano a fornirle queste risorse: finanza, beni, compiti (pulizia, ordine, lavaggio e stiratura dei vestiti, cucina, spesa, acquisti vari, pagamento bollette, e così via)).

Ecco perché comprendere che la propria famiglia per essere serena dev’essere una cooperativa è essenziale. Ognuno ha il suo posto, il suo ruolo, le sue responsabilità. E questo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, genera serenità e non frustrazione. Ci si sente partecipi di qualcosa, lo spirito contributivo onora il legame familiare, si incrementa il livello di resilienza e responsabilità del singolo familiare. Basta comprendere il perché serva che tutti si rimbocchino le maniche.

Vivere la famiglia

Questo perché è rappresentato da cosa significa per noi vivere la famiglia.

In questo caso il leitmotiv è volutamente provocatorio.

Vivere la famiglia può voler dire: i) positivamente; ii) negativamente.

Famiglia vs Azienda?

Positivamente “vivere” vuol dire esserci veramente, essere presenti, essere attenti, prestare la giusta attenzione nel singolo momento che si sta vivendo.

Negativamente “vivere” può voler dire stare troppo tempo (in impresa anziché in famiglia).

Il #dRzOOm è sempre contrario al concetto del “work-life balance” in quanto se esistesse un equilibrio fra vita e lavoro, ciò vorrebbe significare che al lavoro non staremmo vivendo.

Forse questo spiegherebbe come mai alcuni sono frustrati alla mattina presto quando si devono alzare: vivono il proprio lavoro come un dovere, come una maschera da portare, come un ruolo che debba essere per forza impersonato per essere accettati. Ma queste maschere, questi costumi, questi personaggi che ci inventiamo pur di “portare a casa lo stipendio” generano continua frustrazione. Ecco che allora ci si rifugia nel “life” cioè nel tempo “libero”. Ma il tempo libero, quando hai una famiglia, non è mai propriamente “libero” perché anche la famiglia ha le sue esigenze, i suoi tempi, le sue necessità. La frustrazione, quindi, raddoppia: non si riesce mai ad avere il tempo necessario per stare con sé stessi in piena libertà a fare esclusivamente ciò che si vuole.

Questa dicotomia però è pericolosissima.

Secondo il #dRzOOm l’uomo è un “unicum”: siamo individui, siamo familiari, siamo dipendenti o imprenditori/professionisti. In tutti questi ruoli deve essere sdoganato il proprio vero sé. Se l’individuo riscopre il proprio potenziale, se affronta i propri limiti, se riscopre i propri sogni, se li trasforma in obiettivi, se agisce per perseguire questi obiettivi in armonia in tutti e tre i ruoli della vita, ecco che si riesce a ricomporre quell’unicum che genera finalmente la nostra serenità.

Occorre riscoprire il proprio Perché, quello con la P maiuscola.

Il tempo

Per poter perseguire i propri consapevoli obiettivi in tutti e tre i ruoli ecco che occorre un’armonia nell’allocazione del tempo.

Sfida questa davvero difficile, ma non irrealizzabile.

Il tempo è una risorsa che possiede intrinsecamente un’allocazione conflittuale. Il tempo non può essere accumulato per poi essere investito tutto in solo ciò che piace. Il tempo se viene allocato in un ruolo, non può essere allocato nell’altro. Ma la qualità del tempo non dipende esclusivamente dalla dimensione quantitativa.

Essere presente in famiglia ma eternamente collegato con il proprio cellulare infischiandosene delle esigenze familiari, non prestando attenzione agli altri, non preoccupandosi delle altrui necessità, non è un tempo degno di essere speso.

Tornando però alla dimensione quantitativa, occorre una condivisione delle scelte allocative. Un professionista/imprenditore, soprattutto se è appassionato del proprio lavoro, può “perdere di vista” l’importanza di mantenere un giusto tempo per la propria famiglia e per sé. Tendenzialmente è sempre pieno di scuse: lavoro per mantenere uno standard di vita premiale proprio per la mia famiglia, non ho bisogno di tempo per me perché il lavoro mi appaga, sto costruendo il futuro anche dei miei figli, e via discorrendo.

Ma, come si diceva prima, il tempo non ritorna.

Il come lo utilizzo fa una differenza enorme.

Devo allocarlo con estrema consapevolezza e devo condividere le mie scelte con i miei cari. L’eccesso di tempo in impresa può essere giustificabile, ma dev’essere di breve periodo. Ci sono attività che hanno obbligatoriamente dei picchi di lavoro. Se però questi picchi durano un anno intero, ecco che si ha un problema. La resilienza ha un limite. In famiglia il legame, il senso di appartenenza, cresce in funzione diretta del tempo di qualità che si trascorre insieme.

Passiamo ora dal “dove” trascorro il mio tempo (quantitativamente) al “come” trascorro il mio tempo (qualitativamente).

Perché, se è vero che in termini puramente quantitativi si riesce a trovare la quadra, ecco che sia in azienda che in famiglia si deve però “capitalizzare” il tempo a disposizione per essere presenti attivamente: un tempo di qualità!

Ma come faccio a capitalizzare il tempo?

Occorre perseguire quell’equilibrio dinamico fra efficacia ed efficienza, fra qualità e quantità!

Secondo il #dRzOOm, per raggiungere questo equilibrio è necessario imparare ad allocare il tempo per priorità e non per urgenze.

Focalizzando l’attenzione su ciò che è veramente prioritario e importante anziché sulle scadenze di breve termine o sulle esigenze altrui.

Non è una scelta facile cui poter tenere fede quotidianamente in modo automatico. Occorre piena consapevolezza del Perché, occorre avere chiare le reali priorità, occorre determinazione. Non è egoismo, è una scelta consapevole di allocazione temporale.

Anche in famiglia vi sono delle funzioni maggiormente prioritarie.

Tendenzialmente nulla hanno a che vedere con la quotidianità, con il breve termine, con l’efficienza.

L’efficienza è indispensabile, ma è conseguenza dell’efficacia.

Cosa vuol dire vivere con qualità la propria famiglia?

Vuol dire non dover dedicare parte di questo tempo a cose futili oppure può voler dire condividere consapevolmente incombenze pratiche quotidiane per trasformarle in qualcosa di importante in termini di messaggio, di creazione del legame, di senso di appartenenza.

Può voler dire ottimizzare l’organizzazione familiare con la ripartizione chiara e condivisa dei compiti, monitorare periodicamente le esigenze di ogni familiare, pianificare eventi di famiglia, monitorare periodicamente il proprio patrimonio, la propria necessità di spesa.

Analizzare insieme come migliorare l’efficienza operativa della famiglia non è “fare” nell’operatività familiare. Reimmaginare l’efficienza di famiglia significa fare “economie di scala” in termini di tempo e, conseguentemente, liberare ulteriore tempo da dedicare a questioni maggiormente prioritarie come la condivisione del proprio tempo con i propri familiari avendo la mente sgombra da tutte le incombenze di breve termine.

Questo è il tempo di qualità! Vuol vivere pienamente partecipe quel tempo insieme agli altri, vuol dire poter dedicare del tempo a fare insieme cose che piacciono, vuol dire poter dedicare del tempo a conoscersi veramente, a farsi raccontare le proprie esperienze, a poter essere di supporto se vi fossero problemi, a partecipare attivamente seppur indirettamente alla vita degli altri familiari.

Per un genitore cosa c’è di più importante che la salute e l’educazione dei propri figli? Educazione intesa come formazione scolastica, come formazione ludica, come formazione sportiva, come formazione civica,

Vuol dire aver chiaro il ruolo che la famiglia ha per noi, il ruolo che i nostri familiari hanno per noi, il nostro ruolo per il bene della nostra famiglia.

Occorre quindi anche un’analisi profonda di cosa voglia dire “famiglia” per me.

Perché la delega è fondamentale

Per vivere al meglio la famiglia, la provocazione del #dRzOOm è emblematica: se non delego sufficientemente in impresa sono costretto a vivere in impresa molte più ore del necessario rubando tempo alla famiglia.

Di questo però il #dRzOOm ne parlerà appositamente in un altro post ad hoc.

Per tornare alla famiglia, avere chiarezza del proprio ruolo, dei propri compiti, eseguirli in modo efficiente, consente quindi di liberare tempo.

Se in famiglia contribuiscono tutti, tutti avranno più tempo libero.

Questo tempo però poi dev’essere utilizzato consapevolmente: per sé stessi? Per condivisione? Per oziare? Per rigenerarsi insieme? Per qualcosa di istruttivo? Per qualcosa di ludico?

In ogni periodo temporale, ogni familiare avrà le sue risposte. Ma se la priorità di ciascuno è quella di creare un legame fisiologico di appartenenza, più tempo si trascorre serenamente insieme e più questo legame cresce grazie a radici profonde.

Diventa così evidente che un processo di delega consapevole è di fondamentale importanza sia in impresa ma anche e forse soprattutto in famiglia perché ha un potere rasserenante: ripartisce più equamente i compiti necessari ed al contempo responsabilizza gli attori in gioco generando un senso positivo di appartenenza al progetto (imprenditoriale o familiare che sia).

Conseguentemente se delego correttamente in azienda, avrò più tempo a disposizione per la mia famiglia ma se anche in famiglia delego correttamente ecco che tutti avremo maggior tempo di qualità a disposizione l’uno dell’altro.

Chiarezza nelle priorità

Ovviamente però tutto gira intorno alla corretta allocazione del nostro tempo: per priorità (strategia) e non per urgenze (fare).

Essere consapevoli di queste priorità fa davvero la differenza.

Infatti, la routine ci porterà sempre fuori direzione. Solo se ho consapevolezza di quale sia effettivamente ciò che desidero avrò l’opportunità di accorgermi di essere fuori strada e recuperare la direzione desiderata.

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Puoi vivere da vero protagonista se non scrivi tu il copione?

L’immagine del “protagonista” della propria vita è tanto emblematica da essere utilizzata praticamente in ogni corso/libro di crescita personale.

Generalmente il #dRzOOm sostiene che “se non si vuole vivere da comparsa nella vita altrui ma al contrario si vuole vivere da protagonista la propria vita, occorre acquisire consapevolezza di sé”.

consapevolezza di sé

Ma cosa vuol dire avere consapevolezza di sé?

Secondo il #dRzOOm vuol dire:

  • Conoscere sé stessi: la propria storia, le proprie radici, i propri punti di forza, le proprie lacune, la propria biostruttura, i propri princìpi guida;
  • Conoscere “chi si vuole diventare”: data la propria storicità, come si desidererebbe essere, come si desidererebbe vivere, come si desidererebbe relazionarsi con gli altri, quali obiettivi si vorrebbe raggiungere a livello di persona umana;
  • Conoscere il come potersi migliorare: costruire il proprio volontario percorso di miglioramento, un percorso che abbracci primariamente l’efficacia di lungo periodo ed in funzione di essa l’efficienza di breve termine.

Sono tematiche che, purtroppo, non ci vengono insegnate a scuola e, conseguentemente, in età adulta rischiano di fare paura.

Sono tematiche che, purtroppo, ci appaiono lontano da noi e, conseguentemente, in età adulta sembrano vuote, inutili, mera teoria.

Sono tematiche che, purtroppo, non essendo quantitative non sono considerate importanti dalla società civile e, conseguentemente, in età adulta ci sembrano inutili, prive di ogni significato valutabile, riscontrabile, pragmatico.

Eppure, è vero proprio il contrario.

protagonisti della propria vita

E cosa vuol dire essere protagonisti della propria vita?

Anzitutto occorrere una premessa: ognuno di noi è concausa della propria situazione di oggi. Volenti o nolenti il proprio comportamento è sicuramente una con-causa della situazione: nel bene e nel male. Non tutto ciò che è bene è stato determinato da noi, non tutto ciò che è male è stato determinato dal comportamento altrui.

Questo è il senso del concetto di ProAttività.

L’uomo ha a disposizione “l’ultima delle libertà umane” che non le può mai essere preclusa: il potere di scegliere come agire in funzione degli stimoli esterni.

niente scuse!

Nessuno ha la possibilità di autogiustificarci. Inutili ogni scusa del tipo “ma tu non sai qual è la mia situazione”, “vorrei vedere te al mio posto”, “tutta fuffa, se ti trovassi nelle mie condizioni…”, “le ho già provate proprio tutte ma gli altri….”. Tutte balle!

Ce lo insegna Viktor Emil Frankl nel suo libro “uno psicologo nei lager”.

Frankl è stato un neurologo, psichiatra e filosofo austriaco deportato in quattro campi di concentramento fra cui Auschwitz e Dachau.

Ora, per quanto dura possa essere la tua specifica attuale situazione, davvero credi che sia peggiore di quella di un ebreo deportato in un campo di concentramento?

Secondo me no, smettila di dartela a bere.

Conseguentemente, se lui ci insegna che fra le atrocità che gli venivano perpetrate nei campi nazisti (stimolo esterno) e la sua reazione (elaborazione interna) c’è sempre (sempre!) la libertà dell’uomo di scegliere coscientemente la sua risposta (in linea con i propri princìpi), noi non abbiamo alcun diritto di pensare di non poterne essere capaci. Non abbiamo più scuse.

proattività

Il concetto di ProAttività non si limita a dirci che possiamo prendere l’iniziativa in qualunque situazione ma addirittura che siamo i veri ed unici responsabili della nostra vita.

ResponsAbilità, l’abilità di rispondere agli stimoli esterni senza la reazione istintiva ma secondo scelte coscienti per rimanere integri al nostro potenziale, alla nostra direzione a ciò che vogliamo essere e diventare.

In questo contesto la biostruttura cerebrale può giocare un ruolo differente per ognuno di noi. La tripartizione del nostro cervello non solo può generare in noi stessi una frustrazione di difficile comprensione ma addirittura incide nel nostro modo automatico di affrontare le situazioni.

Chi, come me, ha come uso dominante il cervello rettile rischia di agire istintivamente. Magari cercherà di non guardare in faccia la realtà, magari cercherà di evitare la situazione, magari cercherà di adattarvisi al meglio.

Chi, invece, ha come uso dominante il diencefalo rischia di agire d’impulso. Magari reagirà in modo rabbioso, magari si ribellerà rischiando di esagerare nella reazione, magari cercherà di dominare la situazione rischiando di calpestare i sentimenti altrui.

Chi, infine, ha come uso dominante la neocorteccia rischia di pensare troppo. Magari sarà paralizzato dall’analisi delle conseguenze delle sue reazioni, magari sarà incentrato nella valutazione di tutti i pro ed i contro prima di decidere come reagire, magari tratterà gli altri in modo esclusivamente razionale.

Ognuna di queste sfaccettature, ovviamente, va ad incidere sulle modalità con cui scegliamo di rispondere alle sfide esterne. Saperlo può consentire di non “scavarci la fossa sotto i piedi”, controllando la nostra naturale propensione potremmo trovare un’azione alternativa maggiormente efficace.

responsabilità proattiva

Quindi la responsabilità proattiva significa, in fin dei conti, cercare di influenzare noi stessi per poter influenzare il nostro contesto di riferimento in un’ottica migliorativa senza aspettare che la situazione possa sfuggire di mano improvvisamente.

A questo proposito è opportuno comunque specificare che l’uomo si trova a poter affrontare situazioni di cui ha il pieno controllo, quando l’esito dipende esclusivamente dal suo comportamento, di cui ha un controllo indiretto, quando l’esito dipende dal comportamento di altre persone che egli può persuadere, di cui non ha nessun controllo né diretto né indiretto, quando nessuna persona di sua conoscenza può modificare tale situazione.

Anche in quest’ultima situazione però l’uomo ha la possibilità di scegliere come affrontare ciò che gli sta capitando su cui non ha alcun controllo: scappare (ma è veramente possibile?) evitando la situazione (ma vivendone schiavi), piangersi addosso con un atteggiamento vittimistico oppure abbracciare la propria croce “con il sorriso sulle labbra”.

innocenza = senza speranza

In sostanza dobbiamo smettere, per il gusto di sentirci innocenti, di scaricare tutta la responsabilità di ciò che non va bene nella nostra vita su qualcun altro. Se fosse veramente così è vero che saremmo innocenti e non responsabili ma proprio per questo non avremmo nemmeno alcuna speranza. Ciò in quanto non essendo parte del problema, non potremmo nemmeno risolverlo.

Al contrario, se ci riconosciamo sempre concausa del problema, ecco che, a prezzo della nostra co-responsabilità, abbiamo il potere di iniziativa per iniziare a risolverlo migliorando così la nostra vita.

Diciamo ora che ci siamo. Il #dRzOOm ti ha convinto che è sempre possibile migliorare la propria situazione.

So what? Who cares?

Ok, posso cambiare: so what? Who cares? [e allora? Chissenefrega?]

Beh, in realtà queste informazioni dovrebbero interessare a chiunque: se abbiamo compreso il senso della responsabilità proattiva vuol dire che non dobbiamo aspettare che la situazione diventi frustrante prima di considerarla meritevole di attenzione. Al contrario, dobbiamo cogliere i primi segnali ed affrontarli in modo sereno ma deciso in modo da non consentire loro di deflagrare in problematiche ben più consistenti. Serve un’attenzione al dettaglio, ai primi sintomi, ai primissimi indizi.

Quindi tutti questi ragionamenti servono anche a coloro i quali sono attualmente velici. Perché tutto nella vita è migliorabile e se non cerchiamo di sviluppare ogni nostro potenziale, ogni nostra possibilità rischieremmo di non realizzare il nostro pieno potenziale.

Occorre abbracciare l’ottica del miglioramento continuo. Ecco perché dobbiamo avere consapevolezza della destinazione desiderata: del chi vogliamo diventare.

Quindi, riassumendo: 1) chi siamo; 2) chi vogliamo diventare.

Sta a noi a questo punto scegliere se vivere una vita da comparsa nelle vite altrui oppure iniziare a vivere da protagonista la propria vita. È una nostra scelta!

Non dobbiamo avere paura di scegliere!

La non scelta è una scelta!

Dobbiamo abbracciare la necessità di cambiamento, accoglierla, trasformarla, renderla a nostra immagine e somiglianza.

dal cambiamento al miglioramento, senza sbattimento!

Il #dRzOOm crede profondamente nel percorso “dal cambiamento al miglioramento, senza sbattimento”.

Il cambiamento generalmente è percepito come un qualcosa di impostoci dall’esterno, qualcosa di preoccupante, di pauroso, di negativo.

Il miglioramento invece si riesce a percepirlo come una scelta volontaria, positiva, volta a migliorare la nostra situazione. Non ce lo impone nessuno, lo scegliamo noi per noi stessi.

quale direzione?

Ma come scegliere in che direzione migliorare? E come poter continuare nel miglioramento prescelto?

Una buona base di partenza è quella di analizzare correttamente i propri punti di forza, ma su quelli siamo già sufficientemente forti e capaci di trovare tutte le opportunità per poterli cavalcare.

Al contrario, un miglioramento più veloce lo otteniamo analizzando le nostre lacune. Però non si deve vivere questa analisi come un obbligo. Fondamentale è la conoscenza del perché si decide di lavorare sulle proprie lacune: l’obiettivo strategico desiderato.

In sostanza è come se queste nuove informazioni acquisite rappresentino dei macro-trend con cui fare i conti: come vanno ad impattare sulla mia attuale esistenza? Che conseguenze possono avere? Cosa posso cogliere io oggi avendo acquisito queste informazioni?

Iniziare analizzando ciò che nella propria vita genera così tanta frustrazione da volerne fare a meno distinguendo fra ciò a cui possiamo veramente fare a meno e ciò di cui non vogliamo/possiamo fare a meno è essenziale.

Non tutto ciò che ci frustra o limita può essere eliminato dalla nostra esistenza. Ci sono situazioni con cui si deve comunque fare di conto.

Ma ciò che può essere eliminato senza conseguenze rilevanti deve essere eliminato: occorre fare spazio a qualcosa di altro, a qualcosa di prescelto, a qualcosa di migliore. Un’abitudine non può eliminarla, un’abitudine puoi solo trasformarla da disfunzionale in funzionale.

Iniziamo ad individuare fra questo ciò che possiamo controllare direttamente. Prioritariamente dunque il nostro comportamento. Cosa c’è di disfunzionale nel mio comportamento? Lasciando perdere quello degli altri che sarebbe meno modificabile da parte mia e per il cui cambiamento occorrerebbe maggiore tempo, in cosa posso migliorare me stesso per migliorare la mia vita? Cosa mi sta a cuore? Cosa mi preme? Cos’è importante per me?

priorità > urgenze

Eh già, perché purtroppo noi non siamo abituati a vivere le nostre priorità bensì le nostre urgenze.

Vivere per urgenze è facile: la scadenza è dettata da altri. Conseguentemente non sono io a decidere cosa fare ma sono obbligato a rispettare le scadenze imposte dal contesto o dalla volontà altrui.

Riscoprire le proprie priorità, dunque, non solo è necessario ma è assolutamente fondamentale per un corretto miglioramento personale.

Forse questa è proprio la prima abitudine disfunzionale a cui devo porre rimedio: smettere di vivere solo per le urgenze ma iniziare a scegliere di vivere le proprie priorità che, se scelte correttamente, sono priorità anche per il contesto di riferimento.

Purtroppo, infatti poiché le priorità non hanno una scadenza imposta dall’esterno si è abituati a metterle in secondo piano: totalmente assurdo ma è così. Siamo abituati a procrastinare ciò che non riteniamo urgente, ciò che non ci viene richiesto dall’esterno. Non siamo sufficientemente autodeterminati.

autodisciplina = discepolo di sé stesso

Ecco, quindi, che si deve ritornare ad essere autodisciplinati che non vuol dire diventare dei robot, vuol dire essere discepoli di sé stesso, delle proprie scelte.

Essere autodisciplinati vuol dire anche poter mettere in pausa per decidere consapevolmente se la richiesta che arriva dall’esterno è prioritaria o meno e, in caso non lo sia, imparare a dire di no per rimanere focalizzati sulle priorità. Gentilmente, spiegando il perché ma dicendo no in modo determinato.

Essere autodisciplinati vuol dire che se ho chiaro da dove arrivo e dove voglio andare, non solo inizio con il primo passo ma poi continuo a camminare: per piccoli passi ma sempre ed imperterrito nella stessa direzione.

Inizialmente si può cecare di migliorare la situazione che più sta stretta al momento.

inside => out

Dopodiché iniziando questo percorso di miglioramento personale si deve rimanere focalizzati sulla costanza, sulla continuità: è sempre un approccio “inside=>out” (da dentro a fuori), come sostiene Stephen R. Covey.

Ma come immaginare la direzione di questo percorso senza sbagliare?

No. Non è così pauroso come si potrebbe immaginare.

Serve solo qualche informazione, alcuni strumenti di accompagnamento e tanta tanta dedizione.

In sostanza, decidere di migliorare sfrutta il concetto di responsabilità proattiva ed anticipa gli obblighi di cambiamento esterno risolvendo in modo volontario ed anticipato gli eventuali problemi che potrebbero originarsi con il tempo.

Ecco, quindi, perché è opportuno ragionare in tre fasi cronologicamente susseguenti:

  • abbracciare “chi siamo veramente oggi”;
  • scegliere “chi vogliamo diventare”;
  • “calcolare” il percorso più facile, veloce e sicuro da seguire.

darsi tempo

Attenzione: il “veloce” si riferisce ad una velocità relativa. In questo percorso non esiste la bacchetta magica di Harry Potter. Non posso immaginare di poter migliorarmi dall’oggi al domani, o in una settimana o in pochi mesi. È un cambiamento continuo.

Ma proprio per questo non dobbiamo spaventarci.

Fin dal primissimo passo, sto migliorandomi e provo gusto nel farlo.

Un po’ come quando abbiamo iniziato a sciare. Impossibile arrivare al “super-scodinzolo” dall’oggi al domani, però mi sono divertito fin da subito, fin dalle primissime cadute sugli sci, fin dal primo skilift in cui sono rimasto in piedi per tutto il tragitto.

Le informazioni ci sono, gli strumenti esistono, sta a noi scegliere dunque se continuare a piangerci addosso oppure rimboccarci le maniche per migliorare la nostra vita e quella dei nostri cari.

Eh sì, perché migliorando noi stessi, se comunichiamo bene a chi ci circonda di questo nostro processo, miglioriamo anche il loro contesto di riferimento. Non fosse solo per il fatto che noi stessi facciamo parte del loro contesto.

il percorso del miglioramento

Tornando ora al percorso da affrontare, due cose devono essere ben chiare fin dall’inizio:

  • È un percorso volontario che viene scelto per il proprio miglioramento;
  • Esistono strumenti che evitano lo “sbattimento” o le frustrazioni connesse.

In questo percorso, come in ogni progetto di lungo termine della propria vita, avremo degli alti e dei bassi, avremo un calo di motivazione, avremo momenti in cui metteremo tutto in discussione, momenti di sconforto, momenti in cui ci sentiremo esausti. Proprio come sugli sci. Ma poi, appena finito il successivo skilift, si riparte con la bellezza delle discese e ci si ricarica.

Anche in questo percorso di miglioramento, dunque, dobbiamo trovare il modo di poter utilizzare uno skilift per la risalita, in modo da minimizzare lo sforzo, e dobbiamo fermarci ad assaporare il piacere delle discese.

gli strumenti

Strumenti per consentirci a risalire le montagne minimizzando gli sforzi possono essere:

  • Le liste emozionali (Steve Chandler);
  • Il reverse chunking (Kerry L. Johnson);
  • Gli obiettivi s.m.a.r.t.; (Peter Druker);
  • I tiny habits (B. J. Fogg);
  • Gli stratagemmi di autoinganno (Giorgio Nardone);
  • La struttura e le domande giornaliera (Marshall Goldsmith).

Qui di seguito, introduciamo brevemente le potenzialità di questi strumenti.

Le liste emozionali sono nient’altro che una serie di liste di qualcosa che ricarica l’entusiasmo. Possono essere citazioni di personaggi di libri, aforismi, canzoni, spezzoni di film, azioni, ma anche libri o film interi, liste di parole piene di emotività. Se in periodi “non sospetti” si dedica 5 minuti al giorno per costruire queste liste, nei momenti di down da esse si potrà attingere a qualche spunto veloce per ricaricare le proprie batterie. Ciò in quanto, come sottolineato anche da Marshall Goldsmith nel suo libro Triggers, il contesto in cui viviamo influenza il nostro stato d’animo. Con le liste emozionali, si riesce a creare al bisogno un contesto rigenerante.

Il reverse chunking è l’identificazione chiara del percorso che da oggi ci conduce all’obiettivo desiderato. Questa metodologia è però controintuitiva: non parte del primo passo che posso fare oggi, bensì parte dall’identificazione dell’obiettivo di lungo termine che viene attualizzato fino ad oggi. Razionalizzare questo percorso inverso ottiene due benefici: l’intero percorso, che potrebbe spaventare, viene suddiviso in piccolissimi mini-percorsi di facile implementazione; l’obiettivo rimane il traino per il mini-comportamento di oggi.

La metodologia s.m.a.r.t. per la definizione degli obiettivi riesce a rendere la nostra destinazione maggiormente motivante. Secondo questa metodologia gli obiettivi devono essere Specifici, Misurabili, Audaci, Raggiungibili e con un Timing ben preciso. L’insieme di un equilibrio fra queste caratteristiche trasforma il semplice obiettivo in un obiettivo trainante anche nella nostra quotidianità.

Il concetto di Tiny Habits è un principio grazie al quale si introduce un cambiamento nella propria vita con il minimo sforzo possibile. I capisaldi che spiegano i Tiny Habits sono: i) il livello di motivazione è funzione diretta del livello di complessità; ii) le nostre abitudini consolidate posso fungere da ancoraggio per l’introduzione di una nuova abitudine in modo naturale. Conseguentemente utilizzare il reverse chunking per trasformare l’obiettivo smart trainante in un nuovo comportamento di facilissima realizzazione quotidiana consente di introdurre una nuova abitudine senza necessità di una forte motivazione. Dopodiché l’abitudine si consoliderà portando un cambiamento in forma esponenziale. Inoltre, ancorare questo nuovo facilissimo e minimo comportamento ad una nostra abitudine giornaliera rende naturale la sua introduzione nel nostro schema quotidiano.

Gli stratagemmi di autoinganno sono azioni controintuitivi per scardinare le nostre trappole mentali e sradicare abitudini diventate così rigide da essere oggi disfunzionali per il nostro benessere sostituendole con nuove abitudini maggiormente funzionali. Esistono infatti modi razionali per affrontare le nostre più recondite emozioni: piacere, paura, dolore, rabbia. Questi metodi consentono di risolvere i nostri contrasti emotivi che rischierebbero altrimenti di generare disfunzionalità oppure la paralisi delle nostre azioni.

Infine, riorganizzare la propria agenda, il proprio contesto, il proprio focus quotidiano in modo tale da beneficiare di “economie di scala”, in modo da non sprecare tempo e energia nella definizione del cosa si debba fare oggi (ricordandosi che le priorità vengono prima delle urgenze), in modo tale da essere sempre concentrati su una cosa sola per volta genera vantaggi comportamentali in un ottica di efficienza che rimane al servizio dell’efficacia desiderata.

L’uomo è un essere biologico fatto primariamente di emozioni e secondariamente di razionalità. Lo vediamo ogni qualvolta pensiamo di prendere una decisione razionale e poi confrontandoci con i nostri cari scopriamo che esistevano anche alternative maggiormente efficaci.

#ConsapevolezzaIndividuale

Per questo il #dRzOOm nella sua professionalità si focalizza nel generare #consapevolezza prima di individuare un percorso di risoluzione della problematica. Come sempre è bene ricordare che la #consapevolezza impatta ovunque: individuo, famiglia, gestione del patrimonio di famiglia, gestione dell’impresa di famiglia.

E allora, lasciati coinvolgere dal #dRzOOm e seguici su tutti i canali social !;o)

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Il patrimonio di famiglia è un mezzo. Per dove?

Secondo la teoria della gestione patrimoniale, il patrimonio non è identificabile come un “fine”. Non può essere considerato “fine a sé stesso”. Un patrimonio senza un fine ulteriore sarebbe disfunzionale a prescindere dalla sua dimensione quantitativa.

Capita, infatti, a volte che nonostante un patrimonio quantitativamente importante la famiglia proprietaria non sia affatto felice. Nonostante si pensi che si possa “comprare” la felicità, così non accade nella vita reale. Non che la povertà generi automaticamente felicità, anche questo è irreale.

Questo è un tema molto sentito dal #dRzOOm: il fatto è, semplicemente, che non è la dimensione quantitativa del patrimonio a poter generare la felicità di una famiglia.

Il patrimonio non è solo quantità

Ciò in quanto non possiamo determinare il patrimonio di famiglia solo nell’aspetto quantitativo.

Il patrimonio vive! Vive per qualcosa di più grande di sé stesso. Vive per contribuire al raggiungimento di quel qualcosa di più grande.

Inconsciamente lo sappiamo bene tutti; eppure, vivere il proprio patrimonio di famiglia con questo approccio è difficile. Fin da scuola ci hanno insegnato a dare un valore quantitativo alle cose. Esistono teorie, criteri, procedure valutative ben “solide”, verificabili, pragmatiche, che danno certezze.

Ciò ha comportato in noi l’abitudine di trovare sicurezza nel vivere la vita in modo “quantitativo”: quanto fatturo (già sarebbe meglio quanto marginalizzo), quanto guadagno, quanto possiedo… sembra che sia questo “quanto” a poter determinare il valore di una persona, il suo successo, la sua felicità.

L’essenziale è invisibile agli occhi

Eppure “l’essenziale è invisibile agli occhi” (Il piccolo principe – Antoine de Saint-Exupéry) e, secondo me, anche alla quantità.

Non viviamo di quantità: viviamo di emozioni, di bisogni, di necessità.

Ecco che quindi ben sappiamo che il patrimonio ha più livelli di vita Quantità sì ma non solo: affettività, emozionalità, funzionalità.

Ciò che ci manca è comprendere come poter analizzare il nostro patrimonio di famiglia nelle logiche affettive, emozionali e funzionali.

È comunque ben evidente che la quantità non è sinonimo di funzionalità.

Il valore affettivo del patrimonio è dato dal fatto che esso è stato costruito, acquisito, scelto dai sacrifici della famiglia, dal suo sforzo, dal suo impegno, dalla sua dedizione, dalle sue scelte.

Il patrimonio rappresenta varie tappe della vita di una famiglia.

Il valore emozionale del patrimonio, invece, è dato dal fatto che la famiglia si riconosce in esso, lo ha vissuto e vuole continuare a viverlo pienamente, ha delle aspettative su di esso, si è affezionato, lo sente parte si sé.

Affettività ed emozionalità sono ben differenti dalla quantità di un patrimonio di famiglia.

Quantità non è funzionalità

Inoltre, la quantità patrimoniale è letteralmente differente dalla funzionalità che quel patrimonio può avere a favore della famiglia.

Un patrimonio, così come una famiglia, è “funzionale” quando ci aiuta a vivere sereni, non quando ci causa frustrazioni durature nel tempo.

Ecco perché il #dRzOOm ha ideato una serie di strumenti per accompagnare la famiglia a valutare il proprio patrimonio in modo distaccato evidenziando tutti e quattro i livelli: quantità, affettività, emozionalità, funzionalità. Ciò consente di acquisire maggiore consapevolezza sulla poliedricità dello stesso.

Quando inizialmente si cerca di valutare il proprio patrimonio, infatti, spesso i giudizi di funzionalità sono istintivamente dati in funzione della utilità che quel singolo bene facente parte dell’intero patrimonio ha avuto nel passato senza comprendere che oggi il contesto rischia, familiare ed esterno, di essere completamente cambiato.

Disallineamenti legittimi di interessi

Oltre ai vari livelli di valore del patrimonio di famiglia, è bene anche prendere in considerazione il fatto, ovvio, che la famiglia è composta da più individui (vedi Famiglia: Relazioni e Tecnologia).

Ogni familiare ha delle sue aspettative, dei suoi bisogni, delle sue necessità, delle sue aspirazioni. Conseguentemente si rischiano legittimi “disallineamenti di interessi” fra i familiari stessi. Averne piena consapevolezza, consente di gestire questo disallineamento in modo sereno. Esserne inconsapevoli, al contrario, genera frustrazione e conflittualità più o meno evidente.

La corretta gestione di questi disallineamenti consente l’identificazione di obiettivi condivisi per il soddisfacimento della famiglia nel suo complesso. Prima però è bene passare dall’identificazione dei princìpi guida familiari e dagli intenti dell’entità-famiglia.

Non è un passaggio semplice, ma una volta giunti a questa consapevole condivisione ecco che magicamente il patrimonio diventa percettibilmente un vero e proprio “mezzo”, non più un mero fine.

Questo processo di Ri-Scoperta consente infatti di individuare una “destinazione” condivisa da tutta la famiglia ed è proprio questa condivisione che consente ad ogni familiare di sentirsi parte di un progetto, si sentirsi appartenente alla famiglia, di poter contribuire anche con il proprio potenziale (in funzione dell’età, delle capacità, delle propensioni).

Conseguentemente il riscoprire questa destinazione condivisa consente di incrementare il livello di resilienza della famiglia ed al contempo determina quella serenità familiare in grado di sopravvivere anche alle difficoltà quotidiane.

Infatti, la consapevolezza familiare non è utopica, non trasforma tutto “rosa e fiori” bensì consente alla famiglia di poter avere sempre ben presente il perché delle proprie scelte e ciò consente di poterle difendere da ogni ostacolo facendo fronte comune senza sentirsi d’un tratto messi in discussione.

Il Patrimonio quindi è un mezzo. Per andare dove?

Ma un mezzo per dove?

Beh, il patrimonio è il mezzo mediante il quale la famiglia è in grado di perseguire i propri obiettivi collettivi ed individuali.

Conseguentemente, una volta riscoperti i princìpi guida e gli intenti condivisi di famiglia, è di fondamentale importanza riuscire ad identificare correttamente questi obiettivi.

Infatti, essi, così come il patrimonio, non sono solo “quantitativi”. Occorre quindi un nuovo approccio anche per l’identificazione degli obiettivi di famiglia. Per questo #dRzOOm ha identificato una metodologia nuova per non “scavarsi la fossa sotto i propri piedi”.

Gli obiettivi di Famiglia

Gli obiettivi infatti sono primariamente qualitativo-funzionali. A questo livello essi rappresentano la strada per la generazione di serenità familiare fin dal primo passo di questo percorso.

Solo una volta identificata la qualità funzionale dell’obiettivo che quel bene contribuirebbe a conseguire questo può essere “attualizzato” al livello quantitativo-temporale.

Infatti, per passare dalla qualità-funzionalità alla quantità occorre tenere in considerazione quanto il fattore tempo influisca sulla capacità del bene di conseguire l’obiettivo desiderato e mantenerlo nel tempo.

In questo senso il focus dovrebbe essere primariamente di lungo periodo, solo successivamente di medio ed infine di breve e brevissimo termine.

Concettualmente invece siamo abituati a prendere decisioni basandoci sull’utilità del breve termine. Questa abitudine può decisamente rivelarsi disfunzionale in quanto non ci consente di prendere in considerazione tutte le conseguenze della scelta.

Al contrario, se immaginiamo come questo bene possa risultare funzionale nel tempo e ragioniamo prima a lungo termine (15-20 anni), poi a medio termine (10-5 anni), poi a breve termine (5-1 anno) ed infine a brevissimo (6-3 mesi) ci stiamo obbligando a considerare che la nostra stessa vita avrà nel tempo obiettivi differenti.

L’approccio nel concreto/1

La scelta della casa di prima abitazione, giusto per fare un esempio banale e che viviamo tutti, non dipende esclusivamente dal budget a disposizione.

Una volta definito il budget che la famiglia si può permettere (sommatoria delle proprie risorse e di un eventuale mutuo bancario), ognuno di noi ha vissuto sulla propria pelle che la ricerca della casa “ottimale” è comunque difficile.

Questa difficoltà non dipende dalla dimensione del budget spendibile.

Essa soggiace a logiche di bellezza estetica, di funzionalità intramurale, di funzionalità esterna, di accessori, di complementi, di possibilità di vivere eventi particolari cari alla famiglia stessa: cene con amici, grigliate in giardino, localizzazione geografica e vista panoramica.

Ognuna di queste logiche è legittima e fondamentale.

Ognuna di queste logiche, nella sua applicazione, è specifica per ogni singola famiglia.

Avere condiviso fra tutti i famigliari una “casa top” ed una “casa stop” all’interno del budget disponibile, consente poi successivamente di poter vagliare con maggiore consapevolezza il mercato immobiliare nella zona geografica prescelta.

Avere ben chiare le caratteristiche della “casa top” e quelle della “casa stop” consente quindi di riuscire a valutare le varie possibilità esistenti sul mercato geografico di riferimento con maggiore flessibilità senza sottovalutare alcun aspetto fondamentale. Il costo, se rientra nel budget spendibile, non rientra fra questi.

Identificati quindi questi obiettivi qualitativo-funzionali che la casa dovrebbe avere, ecco che la famiglia può “attualizzarli” al livello quantitativo: prima con obiettivi di lungo termine, poi di medio termine ed infine di breve termine.

Il timing, infatti, è di fondamentale importanza nella funzionalità di un bene patrimoniale poiché è legato alla vita vissuta della famiglia che muta nel corso del tempo.

Numero di piani (se è una villa), numero di locali, dimensioni della superficie, numero di bagni, cantina, dimensione garage fanno parte degli obiettivi quantitativi.

In funzione della casa reale prescelta poi sorgono nuovi obiettivi quantitativi: ristrutturazione, rifiniture, impiantistica, estetica. Dai pavimenti (mattonelle, parquet, legno, …) ai sanitari, dalle placchette degli interruttori elettrici agli infissi, dagli elettrodomestici all’arredamento.

Questi sono obiettivi quantitativi di lungo periodo.

Immaginiamo che la famiglia stia comprando una villa: il numero di piani, la dimensione del giardino, la distanza dai servizi principali della città, giusto per fare solo alcuni esempi, sono di fondamentale importanza nell’orizzonte temporale 10-20 anni.

I genitori dopo 20 anni avranno difficoltà a salire le scale, a curare il giardino, ad utilizzare l’autovettura.

Ecco come nell’analisi di famiglia questi aspetti dovrebbero essere presi in considerazione già oggi in sede di acquisto. Venderanno questa villa? In quale periodo? Dove andranno? Faranno scambio con uno dei figli andando nel suo appartamento? Oppure la villa è già predisposta per poter accogliere insieme sia i genitori che le famiglie dei due figli? Ma i due figlio vorranno convivere insieme? E le loro future mogli?

Purtroppo, questi quesiti rappresentano la vita comune di una famiglia anche se, per la singola famiglia non se ne ha consapevolezza.

L’approccio nel concreto/2

Comprare la casa ai propri figli quando stanno ancora frequentando le scuole superiori, ad esempio, potrebbe essere un errore.

Il figlio potrebbe poi decidere di fare l’università in un’altra città, all’estero, di andare poi a vivere in questa nuova città o in un nuovo Stato ed ecco che aver acquistato la casa in tempi troppo anticipati ha generato una disfunzionalità successiva ma già probabile in sede di acquisto.

Cosa se ne farebbe dell’appartamento la famiglia in questi casi? Lo rivenderebbe? Lo affitterebbe? Quali scelte strategiche verranno effettuate? Saperlo prima avrebbe fatto cambiare tipologia di appartamento? Localizzazione geografica? Dimensioni?

L’approccio nel concreto/2

Immaginiamo il caso di una famiglia, che vive in una provincia italiana qualunque, che ha due figli. Il suo patrimonio è molto ampio.

Il primogenito, Marco, si è appena laureato a pieni voti in università e decide di fare un master MBA (management and business administration) a Londra.

Non avendo alcun problema patrimoniale la famiglia potrebbe decidere di comprare un appartamento equidistante fra il centro città e l’università di destinazione.

Ma questa scelta sarebbe funzionale? Sempre? L’appartamento infatti diventa una delle componenti del patrimonio della famiglia.

Quantitativamente non c’è alcuna controindicazione, soprattutto nel breve termine.

Esiste un’esigenza di uno dei familiari, la famiglia ha le risorse e decide di soddisfare al meglio questa esigenza. Ecco, dunque, che viene acquistato un trilocale in modo da poter ospitare i genitori e la sorella periodicamente durante il weekend.

Funzionalmente?

Marco ha intenzione di stabilirsi a Londra? Vivrà sempre in quell’appartamento? Cosa farà dopo il master? Quali sono le sue ambizioni?

Probabilmente Marco potrebbe anche decidere di rimanere a vivere a Londra. In questo caso l’appartamento può rivelarsi funzionale se la localizzazione sarà ottimale anche in considerazione del suo futuro luogo di lavoro. Ma se così non fosse?

Che fine farebbe questo appartamento? Verrà affittato? Oppure rivenduto?

Marco, pur rimanendo a vivere a Londra, cercherà un altro appartamento in una zona di Londra più comoda. Peggio ancora se dopo l’esperienza londinese Marco desiderasse mettersi in gioco.

L’anti-fragilità

Con la metodologia del #dRzOOM, si viene invece accompagnati ad implementare nelle scelte di famiglia il concetto di “anti-fragilità”.

Una decisione di lungo termine, se presa senza la giusta consapevolezza, pur legandoci per tanto tempo può rimanere funzionale.

Per fare quelle scelte che ci consentono di poter perseguire scenari futuri differenti, che ci consentono di “tenere più porte aperte”, che non vengono rimesse in discussione ogni anno, serve #consapevolezza.

Certo: è sempre possibile tornare indietro.

Ma tornare indietro genera frustrazione, differenziali quantitativi generalmente negativi, dissidi, incertezza.

Solo se la famiglia vive il suo patrimonio a livello qualitativo e non quantitativo questi errori di scelta possono essere gestiti serenamente.  

Ma occorre rimanere flessibili, riuscire ad ammettere i propri errori di valutazione e abbracciare serenamente le conseguenze al fine di porre rimedio per tempo per riacquisire la necessaria funzionalità familiare.

Ecco, quindi, perché il #dRzOOm cerca di accompagnare la famiglia in un percorso che sia in grado di affrontare primariamente il lungo termine per poi attualizzarlo nel breve: ciò è garanzia di serenità!

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IMPRESA: “le guerre dei cloni”

Questa volta il #dRzOOm, per trattare una criticità del passaggio generazionale nell’impresa di famiglia, prende a prestito un capolavoro della cinematografia: il prequel di Star Wars.

Le origini di Star Wars, infatti, si compongono della seguente trilogia:

  • La minaccia fantasma
  • L’attacco dei cloni
  • La vendetta dei sith.

In questo ambiente di science fiction, la clonazione era possibile. Infatti, la tecnologia del remoto pianeta Kamino era in grado di produrre un “esercito di cloni”, repliche esatte (ancorché modellate e manipolate ad hoc) del modello genetico (nel film, il cacciatore di taglie Jango Fett).

La repubblica, sempre nei film, decide di utilizzare questo esercito per contrastare la minaccia fantasma (dell’esercito di droni dei separatisti cappeggiati, sembrerebbe, dall’ex jedi conte Dooku – in realtà il sith Darth Tyranus, allievo di Darth Sidius).

la minaccia fantasma

Ma in impresa quale potrebbe essere la “minaccia fantasma”?

Beh, per la prima generazione potrebbe essere rappresentata dalla volontà di entrare pienamente nella gestione strategica dell’impresa da parte della seconda generazione.

E magari questa minaccia fantasma inizia ad essere percepita con il primo contatto con i “droidi”.

i droidi

E chi sono i “droidi”?

Se in Guerre Stellari erano l’esercito dei “separatisti”, in impresa possono essere identificati nei consulenti consigliati/scelti dalla nuova generazione.

Se questi consulenti non riuscissero a guadagnarsi la fiducia della prima generazione, ecco che questa può percepirli come una “minaccia fantasma”.

Questo schema comportamentale è estremamente diffuso ed è generato da una percezione probabilmente falsata. Infatti, se è la prima generazione che decide di uscire dalla vita operativa dell’impresa, la situazione rimarrebbe sotto controllo.

Quando però è la nuova generazione che inizia a parlare di passaggio generazionale, che inizia a mordere il freno per entrare maggiormente nelle scelte imprenditoriali strategiche, che immagina e propone una riorganizzazione del modello di business, ecco che la prima generazione potrebbe sentirsi minacciata.

Infatti, la scelta di iniziare un percorso di passaggio generazionale non può che arrivare dalla prima generazione. Se questa non decide di uscire dall’impresa, non c’è spazio per un passaggio generazionale pianificato.

Se questa percezione si radica nella prima generazione, ecco che il desiderata ottimale sarebbe quello che i figli siano identici a loro, che la pensassero nello stesso modo, che avessero le stesse propensioni, la stessa visione, che agissero identicamente, che avessero le stesse competenze che ha oggi la prima generazione. In sostanza, il desiderio sarebbe quello di poter avere dei “cloni” al posto dei figli.

Ciò accade anche se razionalmente è perfettamente evidente che sono persone differenti.

la clonazione

Purtroppo, o fortunatamente, però nella realtà è impossibile (ad oggi) clonare una persona.

Ma se anche fosse possibile, siamo proprio sicuri che questo sogno non si tramuterebbe in un incubo vero e proprio?

Partiamo da una primissima considerazione: se pur fosse possibile clonare una persona, il modello genetico non sarebbe comunque replicabile in quanto egli è anche il frutto di tutte le informazioni acquisite durante la propria vita che non sono trasmissibili nell’eventuale clonazione psico-fisica.

La persona in fatti è unica, singolare ed irriproducibile proprio in quanto è la somma delle infinite informazioni acquisite dal suo concepimento ad oggi.

Questa informazione ci è utile, ad esempio, per accompagnare l’imprenditore a valutare i propri figli contestualizzando il fatto che lui oggi ha un’enormità di esperienza in più. Per analizzarli compiutamente, dovrebbe ricordarsi, oggettivamente, come era lui alla loro età. Esercizio di non facile applicazione in quanto ognuno di noi nel ricordo di sé rischia di “reinventarsi”.

Inoltre, in ambito relazionale è piuttosto diffusa la teoria per la quale se due persone fossero identiche, non riuscirebbero né ad andare d’accordo né a generare sinergie. Ciò in quanto, da un lato, la coincidenza creerebbe troppe sovrapposizioni e quindi conflittualità per chi fa cosa come e quando, dall’altro, proprio poiché a livello di strategia/pensiero la logica sarebbe identica, si godrebbe di una percezione della realtà limitata ad un individuo.

Facciamo un piccolo passo indietro: non esiste “LA” realtà. O meglio, esiste ma è così enorme da non poter essere percepita dall’uomo se non in una percentuale infinitesimale.

Conseguentemente, due persone differenti hanno una percezione maggiore rispetto ad una singola persona. A prescindere dal livello di #Consapevolezza di questa.

il confronto necessario

Per questo l’uomo ha bisogno di confrontarsi, di mettersi alla prova, di verificare i propri pensieri con altre persone: per non rischiare di andare dritto come un treno su binari precostituiti che però rischiano di finire contro un muro se la percezione/binario è mal indirizzata/o.

Tuttavia, è bene precisare che differenza e divergenza hanno due significati ineguali: la differenza è sinergica, la divergenza è conflittuale. Tutto dipende dal grado di angolazione.

Due rette divergenti hanno un angolo fra di loro che origina una distanza che cresce nel tempo. Questa distanza, diventando ad un certo punto, incolmabile trasforma le persone in estranei e, conseguentemente, incrementa il livello di conflittualità di visione, di logica, di approccio.

Al contrario, due persone differenti sono come due rette parallele. La loro differenza sta nella loro singolarità ma hanno la stessa angolatura che consente loro di progredire in sincrono. Questa distanza fra le rette crea uno “spazio sinergico” originato proprio dalle differenti percezioni della realtà che genera una “anti-fragilità” superiore alla somma delle parti.

Conseguentemente due persone “differenti” ma non divergenti possono condividere la stessa visione e la stessa missione (di famiglia e d’impresa) pur rispettando reciprocamente la percezione distinta dell’altra persona.

Queste considerazioni sono di fondamentale importanza per la progettazione ottimale del cosiddetto passaggio generazionale ma anche in fase di start up per “selezionare” i propri compagni di avventura: siamo differenti o divergenti? E se siamo differenti, riusciamo a crescere parallelamente entrambi? Riusciamo a generare, in quello spazio percettivo, una sinergia consapevole?

Prima dell’aspetto tecnico-gestionale del passaggio generazionale, è bene affrontare queste tematiche.

Come ogni approccio di #ConsapevolezzaIndividuale, è un approccio “inside-out”. A queste domande deve prioritariamente rispondere il singolo per sé e poi condividerle con “l’altro”.

la vendetta dei sith

Se quindi abbiamo compreso che “la minaccia fantasma” e “l’attacco dei cloni” può rischiare di verificarsi anche nell’impresa di famiglia, qual è “la vendetta dei sith”?

Beh, è la reazione che rischia di essere attuata dalla prima generazione qualora si sentisse “messa in un angolo”, contestata, o non più riconosciuta: si vendicherebbe.

Purtroppo, questa emozione rischierebbe di innescare una complicazione ulteriore: un netto separamento dal piano razionale da quello emozionale.

Da un lato, generalmente si comprende quanto sia logico e razionale pianificare un ingresso della nuova generazione in impresa, dall’altro però la prima generazione non è pronta a riconoscersi come “uscente”.

Il passaggio generazionale, in fondo, non inizia con l’età anagrafica della prima generazione bensì con la sua decisione di uscire gradualmente dall’operatività dell’impresa.

Senza questa decisione, ogni tentativo sarebbe non solo fallace ma addirittura controproducente.

E perché si genera questo distacco?

Certamente non per aspetti o questioni tecniche.

E’ che la prima generazione si sente ancora viva, si sente ancora realizzata in impresa anzi, probabilmente, l’impresa viene vista proprio come l’origine della propria realizzazione/affermazione.

non è una fine

È che la prima generazione vede il passaggio generazionale come una “exit”, come una “fine”, come il primo passo verso la tomba.

Prendere coscienza del passare del tempo, del non avere più le forse e/o la lucidità necessaria per essere imprenditorialmente operativo e coinvolto quotidianamente sei giorni su sei alla settimana e dodici ore al giorno è un duro colpo emotivo.

Ciò dipende dal fatto che la percezione è quella della fine di un’epoca.

Come poter evitare di innescare tutto questo?

le false partenze

Probabilmente cercando di evitare dei passi falsi di partenza:

  • Per la seconda generazione:
    • Non fare pressione, non anticipare i tempi, non focalizzarsi sulla vita d’impresa;
    • Assumersi gradualmente sempre più responsabilità nell’operatività quotidiana dell’impresa;
    • Far percepire attraverso i numeri ed i risultati la capacità imprenditoriale, seppure differente rispetto la prima generazione;
    • Non lamentarsi della prima generazione, ma gestire proattivamente le differenze di visione;
    • Essere propositivi per tempo per poter persuadere la prima generazione presentando i lati positivi ed evidenziando le criticità e come verrebbero risolte della nuova possibile visione d’impresa;
    • Riconoscere il potere di scelta alla prima generazione;
    • Non dare per scontato che l’impresa è/sarà comunque della seconda generazione;
    • Non vedere le differenze di visione come una guerra personale o come un giudizio sulle capacità individuali;
  • Per la prima generazione:
    • Comprendere per tempo che la persona non si identifica nell’impresa: ognuno ha più ruoli in cui desidera realizzarsi;
    • Comprendere per tempo che l’impresa ha determinato il successo della famiglia ma ha anche “rubato” tempo per gli altri interessi (giovanili);
    • Iniziare per tempo a coltivare/riprendere gli interessi al di fuori dell’impresa;
    • Pensare alle conseguenze che un decesso improvviso potrebbe avere proprio nella vita dell’impresa;
    • Immaginare l’impresa come una vera e propria creatura da preservare anche dopo di sé;
    • Identificare il passaggio generazionale non come una fine bensì come un nuovo inizio;
    • Accogliere le potenzialità del passaggio generazionale come un guadagnare tempo per sé e per ciò che piace veramente;
    • Iniziare ad immaginare di delegare quelle funzioni imprenditoriali che frustrano e non vengono percepite come valore aggiunto;
    • Iniziare a limitare il proprio intervento solo alle decisioni a mano a mano più strategiche, di visione, di posizionamento;
    • Dedicarsi alla formazione dei propri eredi per prepararli al loro ingresso ed ai propri manager per renderli autonomi.

processo bidirezionale

Come si può ben comprendere, il passaggio generazionale è un processo “bidirezionale”.

Entrambe le generazioni, essendo parte in causa, devono primariamente trovare e riconoscersi nel “perché” è fondamentale pianificare con #consapevolezza questo processo.

Senza questa prima presa di coscienza, si rischiano tre situazioni paradossali:

  • Stasi: volontà a parole da parte di entrambe, ma nessuna azione in tal senso;
  • Procrastinazione: volontà da parte di entrambe, ma senza dedicare alcuna ora per il processo di pianificazione e successiva implementazione;
  • Conflittualità: qualora si ipotizzi che tutto dipenda dall’altra parte o che si possa effettuare velocemente e senza troppa dedizione.

L’impresa vive nella “staticità” quando non si riesce a tradurre in azione quotidiana la volontà di affrontare il passaggio generazionale. Si sa che è una criticità che può danneggiare enormemente la vita futura dell’impresa (e con essa di tutte le famiglie che ne fanno parte) ma, non avendo una scadenza imposta dall’esterno, non scatta mai la molla che consente di ritagliarsi nell’agenda il tempo necessario per tutte le fasi necessarie. Purtroppo, quando nella vita ci si lascia guidare esclusivamente dalle scadenze, le cose importante che dipendono esclusivamente dalla nostra scelta vengono travolte. Per questo occorre pianificare con la giusta #consapevolezza.

La situazione della “procrastinazione” invece è un livello successivo di paradosso. Si è deciso e ci si è dedicati adeguatamente per pianificare con #consapevolezza, dopodiché si pensa inconsciamente che “il più è fatto” e che il resto verrà da sé. Niente di più sbagliato. Senza far seguire alla pianificazione un cambiamento comportamentale quotidiano, il piano rimarrà sempre a livello meramente teorico e non si tradurrà mai in azione, in un percorso, e quindi in un risultato.

L’impresa vive invece la “conflittualità” ogni qual volta che dopo aver pianificato ed aver iniziato a cambiare ci si scontra con la difficoltà del cambiamento.

E forse siamo proprio giunti al punto focale.

In generale in impresa, ma soprattutto in occasione del passaggio generazionale, ogni attore coinvolto deve affrontare la più grande sfida della propria vita: il cambiamento in età adulta.

dal cambiamento al miglioramento, senza sbattimento

Il #dRzOOm cerca sempre di offrire una nuova percezione di questa necessità: “dal cambiamento al miglioramento, senza sbattimento”. Non è uno slogan. Non è facile. Non è immediato. Non è veloce. Non è nemmeno automatico. È però drammaticamente efficace!

Solo il fatto di cambiare terminologia scatta in noi una percezione differente.

La parola cambiamento è una parola altamente “emozionante”. Ma può essere entusiasmante o paurosa. Ciò in quanto, generalmente, il cambiamento è qualcosa che percepiamo come impostoci da altri.

L’uomo, essendo un essere biologico, vive per “risparmio energetico” attuando una schematizzazione dei propri comportamenti, vivendo di abitudini, creandosi una propria zona confortevole in cui vivere la propria quotidianità. Questa modalità è estremamente utile in quanto ci consente di poter affrontare buona parte delle nostre incombenze quotidiane senza doverci prestare attenzione, senza dover decidere per ogni nostra azione, senza dover rimanere ad un livello di attenzione che ci sfiancherebbe.

Le abitudini, quindi, sono sicuramente positive: ma le dobbiamo gestire, altrimenti saranno loro a gestire noi stessi.

Quante volte in impresa viene recitato il rituale del “abbiamo sempre fatto così”? Quante volte non si prendono in considerazione nuove modalità gestionali perché il “nuovo” ci spaventa?

Tutto ciò che non conosciamo ci spaventa. Il nostro cervello rettile (spina dorsale, cervelletto) che sono la base della nostra sopravvivenza è enormemente più veloce della neocorteccia. L’istinto di sopravvivenza, dunque, è molto più veloce della razionalità: ce l’hanno dimostrato le neuroscienze.

Il nuovo quindi è normale che ci spaventi poiché, proprio in quanto nuovo, potrebbe essere rischioso.

Occorre quindi un nuovo approccio al “nuovo” ed al “cambiamento”: il miglioramento!

Con il miglioramento, siamo noi a decidere sia che vogliamo cambiare, sia che cambiamo per il nostro meglio. Ecco, allora, che se facciamo le cose per gradi, se ci concediamo il tempo necessario per conoscere il “nuovo”, se ci concediamo il tempo necessario per acquisire le informazioni che ci servono, se progrediamo un piccolissimo passo alla volta, prima che ce ne rendiamo conto abbiamo già “modificato la nostra abitudine” trasformandola in qualcosa di maggiormente ottimale.

Per questo il processo del passaggio generazionale in impresa è bene che inizi con la “scoperta” del perché sia così necessario. Imposizioni e fretta sono quindi evidentemente controproducenti.

Non posso imporre un perché, posso solo sottoporlo all’attenzione.

Non posso avere fretta, ognuno ha bisogno dei suoi tempi.

Solo avendo compreso e soprattutto condiviso con gli altri attori in gioco, prima e seconda generazione ma anche i dipendenti non familiari, il perché si debba iniziare questo processo si potrà proseguire senza “sbattimento” cioè senza frustrazioni.

Attenzione però, non cadiamo in false speranze: non è la panacea di tutti i mali. Non esiste la bacchetta magica. Occorre comunque tempo, dedizione, trasparenza, confronto, accettazione, riconoscimento. Ma in questo modo anche le difficoltà, gli imprevisti, le avversità verranno contestualizzate ed affrontate con serenità. Proprio perché si sarà solidi sul “Perché”.

droni e cloni: sinergie possibili

Ecco che quindi i “droni” potranno aiutare i “cloni” per creare sinergie anziché guerre!

Ecco che i Sith potranno fare pace con gli Jedi poiché capiscono che sia giusto “delegare”, condividere, formare.

Ecco che gli Jedi potranno monitorare i loro desideri, le loro emozioni, le loro paure che altrimenti li trasformerebbe in Sith.

Il come affrontare quindi questo processo di miglioramento viene in un secondo tempo. Viene costruito sulla base di un perché solido e fortemente condiviso a tutti i livelli. Un perché che può essere comunicato anche nei confronti del contesto esterno. Esterno alla famiglia. Esterno all’impresa.

Per concludere, torniamo ora ai “droidi”.

consulente: scelta di campo trasparente

Sta a noi consulenti fare una scelta di campo: chi è il nostro cliente? Qual è il nostro perimetro di azione?

Già, perché nel tema del passaggio generazionale il consulente deve essere testimone fattivo della propria scelta.

Alcuni ritengono che il cliente sia colui il quale lo contatta. In caso della prima generazione, il cliente da tutelare sarà esclusivamente questa. In caso sia la seconda, viceversa.

Altri ritengono che, in un’ottica di preservazione dell’impresa, il vero cliente sia a prescindere la seconda generazione in quanto sarà lei a gestire l’impresa nel futuro.

Altri ancora invece pensano che il vero cliente sia sempre e comunque la seconda generazione in quanto proprietaria e fondatrice dell’impresa stessa.

Se invece vogliamo affrontare la cosa in tema di leadership, possiamo distinguere tre correnti.

C’è chi pensa che la leadership debba essere mantenuta dalla prima generazione finché lo ritiene opportuno.

Altri che ritengono che la leadership debba essere acquisita, anche con mezzi drastici, nel più breve tempo possibile dalla seconda generazione.

Infine, c’è una terza corrente che sostiene, a ragion veduta secondo il #dRzOOm, che sia possibile affrontare quel processo di medio-lungo termine del passaggio generazionale con una co-leadership condivisa.

Il #dRzOOm però la vede ancora diversamente.

la scelta del #dRzOOm

Il passaggio generazionale è, come abbiamo capito, un processo di medio-lungo termine in quanto tocca le tematiche di “cambiamento in età adulta”, le dinamiche relazionali familiari e le criticità dell’adeguamento della strategia e della struttura d’impresa.

In realtà quindi per il #dRzOOm, il vero cliente è la Famiglia imprenditoriale nel suo complesso. Ciò impone ovviamente che il percorso sia di co-leadership. Ovviamente la co-leadership necessità di #consapevolezza, richiede tempo, richiede dedizione, richiede attenzione da parte di tutti gli attori coinvolti: non si può improvvisare.

Il consulente, quindi, deve essere trasparente con tutti i familiari: il vero cliente è la famiglia intesa come entità collettiva. Ciò non vuol dire che non si dovrà preservare il valore dell’impresa. Ciò che si dovrà fare è accompagnare la famiglia imprenditoriale a diventare consapevole e responsabile. L’impresa di famiglia non viene mai gestita esclusivamente secondo le logiche economico-patrimoniali-finanziarie, ma non deve essere nemmeno gestita come se fosse una “mucca da mungere”.

Sia che a contattare il consulente in prima battuta sia la prima generazione sia che sia stata la seconda, egli deve subito mettere in chiaro che lui laverà nell’interesse di tutti.

Ciò in quanto per il #dRzOOm Famiglia, Patrimonio ed Impresa devono essere fonte di serenità, non di frustrazione o, peggio ancora, di “guerre dei cloni”.

Ma le fasi di questo percorso potranno essere l’oggetto di un prossimo articolo di approfondimento, un’altra “trilogia” nella forza… ahem…. Nell’impresa!

Per ora il #dRzOOm finisce, ricordando però di non esitare a divulgare queste sue analisi se si ritengono importanti. Più spettatori saranno al cinema a guardare guerre stellari, meno imprese chiuderanno per aver subito il passaggio generazionale!

…sssshhhhh: inizia il film!

Famiglia: relazioni & tecnologia

La famiglia è il nucleo fondamentale della società civile. Questa è la definizione più conosciuta in senso antropologico.

Famiglia: palestra relazionale

Ciò in quanto, dal punto di vista sostanziale, la famiglia è la “palestra” relazionale più completa in assoluto: è il nucleo che raccoglie ogni tipo di relazione sociale.

Accoglie infatti, al suo interno, la relazione con sé stessi, la relazione fra i genitori, la relazione fra un genitore e tutti i figli, fra i genitori ed un solo figlio, fra un solo genitore ed un solo figlio, fra i genitori e tutti i figli, fra tutti i figli, fra solo due figli.

Al suo esterno, le relazioni della famiglia con gli altri parenti (nonni, zii, altri parenti), della famiglia con le istituzioni civili (scuola, comune, parrocchia, …), della famiglia con gli enti formativi/sportivi/ludici (scuole, palestre, …), della famiglia con l’impresa di famiglia o con l’impresa datrice di lavoro, della famiglia con la cerchia di amicizie (dei genitori, dei figli, …).

Come ben possiamo immaginare tutte queste relazioni “a portata di mano” ci forniscono quotidianamente l’occasione per migliorarci nell’interazione con le altre persone e con noi stessi. Inoltre, facendo attenzione, si scopre quanto l’equilibrio di ognuna di queste relazioni viene anche influenzata dal luogo ove esse si svolgono. Ad esempio, la relazione di un papà con la propria figlia può avere un certo equilibrio all’interno della casa di famiglia, un altro equilibrio in presenza delle amiche della figlia o delle loro famiglie, un altro ancora durante le pizzate di classe e così via.

Famiglia: equilibrio e contesto

Ciò in quanto le relazioni continue fra due persone trovano, nel bene o nel male, un loro equilibrio che risente delle influenze esterne: l’ambiente, l’esterno, il luogo, il contesto.

A questo proposito, quindi, oggi è doveroso considerare che “l’ambiente digitale” è un vero e proprio ulteriore contesto di riferimento di queste relazioni. Sui quotidiani leggiamo sempre più spesso di bambini, ragazzi, adolescenti che si suicidano oppure che finiscono in compagnie “distorte” in quanto adescati da adulti (leggasi pedopornografia) o che compiono atti “assurdi” in quanto influenzati dal cosiddetto cyberbullismo o dai “giochi virali” presenti sui social. Infine, ma non ultimo, anche questo nuovo ambiente influenza il pensiero di chi ne fruisce: che sia adolescente o adulto.

Famiglia e ambiente digitale

Il cosiddetto “on line” è quindi un vero e proprio ulteriore contesto di riferimento: un altro luogo di relazione.

Purtroppo, il nostro cervello (sia dei giovani che degli adulti formati) non percepisce immediatamente la differenza fra l’ambiente reale e quello digitale. Purtroppo, però questo nuovo ambiente relazionale è totalmente difforme da tutti gli altri luoghi di cui abbiamo sempre avuto esperienza. Conseguentemente la stessa relazione a due viene a modificarsi in modo non evidente, senza percezione, senza averne la giusta consapevolezza.

Ma pur essendo tecnologico, l’ambiente digitale resta pur sempre è un contesto relazionale reale quanto la scuola ed il lavoro.

Oggi tutto “vive” su facebook, su linkedin, su instagram, su tiktok, su twitter…. Addirittura, sembra quasi che se non sei presente sui social non esisti.

Ambiente digitale: sempre possibile

Tra l’altro, una delle sue peculiarità è che non si interrompe mai, non si chiude, non si spegne. Infatti, anche quando spegniamo lo smartphone, il tablet o il pc, queste relazioni “social” rimangono in uno stato di sospensione.

Consideriamo, ad esempio, quanto accade con le e-mail.

Oggi la grande maggioranza delle persone ritiene normalissimo inviare una mail ad un’altra persona anche durante orari fuori contesto (notte o mattina presto) in quanto “tanto lui/lei la leggerà quando avrà tempo ma intanto gliel’ho già inviata”.

Non entro nel merito del giusto e sbagliato, ma questo aspetto è stato considerato dai provider con la creazione dell’invio predeterminato ad un orario ben preciso, ciò dimostra quanto questa recente abitudine abbia iniziato ad infastidire tutto il sistema di riferimento.

Sui social, ad esempio, non c’è più la possibilità (se non bannando, ma in questo modo venendo “scoperti” di questo sgarbo!) di rientrare senza essere visti.

Da bullismo a CyberBullismo

Parlavamo prima di cyberbullismo.

Anche ai miei tempi esisteva il bullismo, tuttavia il sottoscritto (ribattezzato “Riccardo cuor di leone”) poteva attuare diverse strategie per vivere il proprio ambiente relazionale minimizzando le interferenze del bullo di turno. Oggi sui social questo è enormemente più difficile soprattutto per un adolescente.

Questa sospensione della relazione determina quindi un’influenza senza fine, possono portare a disturbi patologici ed addirittura ad arrivare a distruggere una personalità, soprattutto se ancora in corso di formazione.

Ambiente digitale: cassa di risonanza

Inoltre, l’ambiente relazionale di rete ha un’altra peculiarità ancora: amplifica il messaggio. Oggi non c’è più la radio, la televisione o i giornali a bombardarci di informazioni. Oggi ci sono tutte le piattaforme social, tutti i portali on line. Oggi sui social ognuno di noi è diventato (o può diventare, nel bene e nel male) un’agenzia di informazioni. Da qui la viralità di fakenews da parte di persone comuni che non fanno parte degli addetti ai lavori del mondo dell’informazione.

Così come i mass media, anche gli ambienti tecnologici rischiano di essere vissuti passivamente ampliando ancora di più l’influenza che le informazioni, i messaggi, gli esempi, gli avvenimenti possono avere sulla nostra capacità discernitiva e, piano piano, modificano anche le nostre credenze.

Relazioni familiari e ambiente digitale: un nuovo equilibrio

Conseguentemente le dinamiche relazionali nell’ambiente digitale sono differenti ed impattano in modo differente anche nelle relazioni fisiologiche familiari ed imprenditoriali.

Perché parlo anche delle relazioni imprenditoriali? Perché l’impresa, essendo un’entità collettiva, risente ugualmente di queste influenze sia dal punto di vista umano delle singole persone che vi lavorano, sia dal punto di vista di comunicazione professionale/imprenditoriale verso l’interno e l’esterno al contempo.

Ad esempio, chi di noi non ha sul proprio profilo social una foto in cui viene ritratto mentre sta brindando (ad una festa, un party, in discoteca, …) con il bicchiere in mano e, magari, gli occhi fuori dalle orbite ed un sorriso troppo ampio?

Ovviamente il momento fotografato è perfettamente in sintonia con il momento, il luogo e la compagnia con cui si sta festeggiando. Purtroppo, però tale fotografia rimane visibile sui nostri profili social in modo totalmente “decontestualizzata” sia rispetto al momento che rispetto al luogo che alla compagnia ed anche rispetto al motivo del festeggiamento.

Un po’ come la persona che non sente la musica e ritiene dei pazzi chi vede ballare.

Relazione digitale e distacco spazio-temporale

C’è dunque un evidente distacco spazio-temporale garantito per tutto ciò che postiamo in rete e che verrà visto in un momento successivo, eppure non lo percepiamo o, quantomeno, non ne abbiamo consapevolezza.

Inconsciamente, questo distacco spazio-temporale sta diventando di comune percezione dalle persone che stanno cercando lavoro. Ciò in quanto ormai è risaputo che le agenzie di recruiting e gli stessi datori di lavoro, visionano attentamente i profili dei possibili candidati.

Nello stesso modo però anche i genitori, gli imprenditori, le famiglie imprenditoriali, i dipendenti, comunicano sui social senza avere consapevolezza dell’influenza che ciò può generare in chi legge oggi e in chi leggerà un domani.

Queste tracce possono essere positive o negative. Comunque, rischiano di essere tracce indelebili. Anche nella relazione con i propri figli/dipendenti.

Comunicazione digitale: rischio decontestualizzazione

E’ una comunicazione che rischia subito la “decontestualizzazione” e, conseguentemente, può esser fraintesa compromettendo la nostra credibilità futura anche nelle relazioni “in presenza”.

Toccando poi l’influenza che le relazioni digitali hanno nel mondo reale, mi limito ad evidenziare un ulteriore pericolo: vediamo se avete mai vissuto una situazione come questa.

Rischio “insieme-isolato”

Famiglia riunita in soggiorno dopo cena che, anziché continuare le chiacchiere iniziate a tavola, si “isola” stando seduta “insieme” sullo stesso divano.

Questa situazione ha un impatto notevolmente differente anche dall’azzittirsi per seguire tutti insieme la trasmissione televisiva prescelta.

Infatti, guardare il film insieme, è comunque una condivisione di famiglia che crea terreno fertile per le relazioni.

Al contrario, l’isolamento dietro il proprio smartphone “ruba” tempo di condivisione!

È una sorta di alienazione dall’ambiente familiare e va ben oltre del leit-motif cui eravamo abituati: questa casa non è un albergo!

Così come i bambini e gli adolescenti adorano fare ciò che vogliono, ma poi ne pagano le conseguenze, la stessa cosa avviene in questa situazione nelle relazioni familiari. A tutti viene più facile “farsi i fatti propri” senza intromissioni altrui per seguire le proprie passioni, i propri contatti, le proprie relazioni. Purtroppo, però così facendo si spezza il rapporto umano-familiare, si perde quel senso di appartenenza, quel canale comunicativo fondamentale per la costruzione del legame familiare: la presenza piena. Magari anche senza fare nulla, ma “esserci”, essere lì presente nel momento e “coinvolgibile” è comunque una forma di condivisione e comunicazione.

Tecnologia e gap intergenerazionale

Questo aspetto acuisce ancora di più il cosiddetto gap intergenerazionale: le nuove tecnologie hanno un impatto innovativo nelle relazioni umane di difficile comprensione per chi non è un nativo digitale.

Conseguentemente anche l’adulto, il genitore, l’imprenditore deve considerare che la tecnologia influenza, volenti o nolenti, le relazioni con l’altro.

Ovviamente, non lo sostiene solo dRzOOm, ma moltissime pubblicazioni stanno evidenziando questo pericolo.

CISF: “le relazioni familiari nell’era delle reti digitali”

Il CISF (Centro Internazionale Studi della Famiglia), ad esempio, nel suo report del 2017 “Le relazioni familiari nell’era delle reti digitali”, dopo un’introduzione alle motivazioni ottimistiche e pessimistiche della “information and communication technologies” per fornire un quadro completo di analisi, mette proprio l’accento sulle analogie e differenze fra l’ambiente reale e quello digitale. Solo con questa visione complessiva si può comprendere il concetto di “famiglia ibridata” cioè di quella famiglia le cui relazioni avvengono per il tramite della tecnologia digitale. Come si è arrivati a questo tipo di famiglia? Quali dinamiche si sono radicate nelle relazioni familiari? Quale è stata la dinamica del cambiamento?

Si è iniziato con la radio e la televisione, poi con i computer, poi con i portatili, poi con i tablet ed oggi con gli smartphone. Ognuno di questi apparecchi tecnologici cambiano i perimetri della relazione: sia fisici che temporali. Immaginiamo la comunicazione attraverso whatsapp o gli sms: il tempo dell’interazione non è diretto come in una comunicazione in presenza. Inoltre, i contenuti stessi vengono influenzati da questa mediazione tecnologica: vi ricordate che con gli sms si è iniziato a scrivere “x’ dici così: ki te l’ha detto?” Ma anche con riferimenti ai contenuti veri e propri: gli ideali di riferimento, i simboli da seguire, le tendenze nella moda, nei comportamenti, i messaggi che si ricevono da questi strumenti stanno subendo la velocità interattiva dell’evoluzione della tecnologia. Si parla sempre più di domotica, di realtà aumentata, di realtà virtuale.

E la famiglia oggi è al centro di tutto questo cambiamento e, ahimè, sta vivendo questo periodo con estrema superficialità.

Ecco, dunque, che questa analisi prosegue fornendo alcuni spunti per non farsi travolgere da queste dinamiche e consentendo di cogliere invece le opportunità fornite dalle ICT nell’ambiente familiare. In sostanza, acquisendo consapevolezza, si riesce ad introdurre un’adozione moderata della tecnologia al fine di monitorarla e renderla utile ed arricchente per la famiglia.

Ma il CISF va ben oltre. Infatti rappresenta i risultati di un’indagine effettuata sulle famiglie che hanno contribuito a sbrogliare il dinamico intreccio tra le relazioni familiari e le reti digitali analizzando anche le nuove sfide cui la famiglia deve far fronte comune: i) la connessione individuale/familiare ai social media, ii) i contatti personali/impersonali che avvengono in rete; iii) l’influenza dei gruppi online a cui partecipano i vari familiari; iv) la differente “socievolezza” che si vive in rete; v) l’informazione e la partecipazione che si genera attraverso la rete ed i social.

In questo contesto vengono così identificati quattro tipi fondamentali di famiglie: i) le famiglie marginali/escluse, che rappresentano solo il 28,6% del campione; ii) le famiglie mature che sono moderatamente in rete (13,4%); iii) le famiglie “giovani” che sono enormemente più presenti in rete (23,8%); iv) i single e le coppie di giovani (34,2%).

Questo nuovo contesto pone indubbiamente la famiglia di fronte alla necessità di rivedere le proprie modalità educative. Occorre quindi concordare vere e proprie “regole di ingaggio” familiari con le ICT. Ciò non solo allo scopo di coglierne le opportunità ma anche e soprattutto per prevenire le criticità, i pericoli e gli abusi di internet che impattano direttamente nelle relazioni familiari prima e sociali poi.

Sta ad ognuno di noi porsi le giuste domande, acquisire le nuove competenze necessarie, raggiungere la giusta consapevolezza, definire le proprie adeguate risposte ed infine condividerle come corretta governance della famiglia nel suo complesso.

B.J. FOGG: “tecnologia della persuasione”

Molto prima del CISF, già nel 2003, B.J. FOGG, docente della Stanford University, pubblicò il libro “Tecnologia della persuasione” introducendo il concetto di “captologia”. Qui esuliamo dalle relazioni familiari ma rimaniamo nell’analisi dell’impatto delle ICT nelle relazioni sociali. Secondo l’autore, ogni tecnologia cognitiva che media il rapporto tra un individuo e l’ambiente esterno condiziona e plasma la vita di tutti noi.

Fogg ha studiato, anche a livello esperienziale, come l’utilizzo dei mezzi tecnologici computer e mobile attraverso internet possano essere usati per influenzare.

Nel testo vengono identificati sette tipi di strumenti della tecnologia persuasiva: i) la tecnologia di riduzione con cui si persuade semplificando; ii) la tecnologia del “tunnel” con cui le persuade in modo guidato; iii) la tecnologia su misura, con cui si persuade mediante la personalizzazione; iv) la tecnologia del suggerimento, con cui si persuade intervenendo al momento giusto; v) la tecnologia dell’automonitoraggio, con cui si eliminano i fastidi del tracciamento; vi) la tecnologia della sorveglianza, con cui si persuade attraverso l’osservazione (dichiarata); vii) la tecnologia del condizionamento, mediante il rinforzo periodico di obiettivi comportamentali.

L’efficacia della captologia dipende fortemente dalla “credibilità” che, quindi, dev’essere acquisita in modo profondo.

Oltre ai computer, la captologia può essere implementata anche sulle tecnologie di mobilità: tablet e smartphone. Ciò consente, ovviamente, di rafforzare la persuasione tecnologica proprio grazie alla costante “connessione” in rete dell’utente.

Questa influenza può, ovviamente, essere indirizzata per la bieca manipolazione o per la persuasione: dipende proprio dalle intenzioni del comunicatore ma soprattutto dalla consapevolezza dell’utente. La vendita o la manipolazione di massa hanno quindi una nuova arma in più. Ciò porta alla tematica dell’etica nell’utilizzo della tecnologia, della credibilità dei mezzi tecnologici e della scelta che deve essere fatta sia da chi comunica che da chi interagisce on line con esso.

Se il CISF si era dedicato prettamente alle interconnessioni fra dinamiche familiari e tecnologia, FOGG si era già dedicato a studiare quanto la tecnologia può persuadere il comportamento del singolo individuo adulto.

A. PELLAI: “tutto troppo presto”

Il terzo autore che desidero citare è ALBERTO PELLAI, psicoterapeuta dell’età adolescenziale.

Nel suo libro “Tutto troppo presto” approfondisce il tema di quanto le relazioni on line possono avere sulla “sessualità” e sul benessere degli adolescenti (adescamento online, sexting, uso di pornografia, sessualizzazione precoce e dipendenza dai videogiochi). Il suo scopo è quello di sensibilizzare i genitori a comprendere, al fine di prevedere, gli impatti che possono presentarsi all’improvviso nella vita dei propri figli soprattutto in mancanza di supervisione e consapevolezza. Il libro racconta alcune storie di preadolescenti e giovani adolescenti che vivono esperienze sul web che non sono adatte alla loro età.

Pellai è estremamente bravo a generare consapevolezza sul fatto che internet offre infinite opportunità utilissime ma che necessita di estrema competenza. Lo strumento tecnologico ha alcune peculiarità: i) capacità di generare relazioni e contatti nascondendo l’identità delle persone con cui si interagisce; ii) facilissima accessibilità; iii) luoghi “oscuri” troppo facilmente raggiungibili anche involontariamente; iv) ambienti digitali “non protetti” per fasce d’età. Il libro consente di cogliere, anche ai non addetti ai lavori, quanto ad ogni età siano necessari adeguati stimoli ed esperienze per l’acquisizione di quelle competenze psicologiche ed emotive necessarie alla persona in quello specifico momento. Alcune competenze hanno tempistiche fisiologiche prestabilite che non devono essere anticipate rispetto alle normali fasi evolutive dell’adolescente.

Il pericolo di un’eccessiva stimolazione, di un eccesso di stimolazione, di una mancanza di regole in quell’età rischia di essere altrimenti sottovalutato. Prendendo ad esempio la tematica della facilità del ritrovamento di pornografia su internet, possiamo notare quanto questo ambiente digitale abbia radicalmente modificato ed anticipato stimoli che, almeno per la mia epoca, erano di difficile reperimento. Ciò ha generato una differente percezione della sessualità, consentendo addirittura alla generazione di una “mercificazione del sesso” fin dalla tenera età.

L’esperienza del web è un’esperienza “totalizzante”. Su questo aspetto l’autore è particolarmente efficace facendo notare quanto per molti giovanissimi le relazioni digitali siano sempre più immersive ed intense, riducendo progressivamente il desiderio di lasciarsi coinvolgere nella vita reale e in tutto ciò che offre a un preadolescente in termini di esplorazione e relazione interpersonale. Il pericolo di “hikikomori” è un esempio drammatico di questa situazione: la progressiva perdita di interesse per la vita reale e il desiderio di rifugiarsi a tempo pieno nel “virtuale” che di virtù non ha proprio nulla in questo caso. Chi soffre di questo “disturbo” rischia di decidere volontariamente di vivere la propria vita recluso in una stanza ed interagendo con altri essere umani esclusivamente per il tramite della tecnologia.

G. NARDONE: “pragmatica della comunicazione digitale”

Infine, ma non ultimo, un altro grandissimo psicoterapeuta ha appena pubblicato un libro per contestualizzare la “pragmatica della comunicazione” nell’ambiente digitale.

La modalità della comunicazione on line è così sentita che infatti anche il prof. Giorgio Nardone, psicoterapeuta e fondatore del Centro Studi di Psicoterapia Breve Strategica di Arezzo, ha appena pubblicato il libro “Pragmatica della comunicazione digitale.

Nardone evidenza l’esistenza della nuova, vera e propria “realtà digitale”. Ne analizza le modalità della comunicazione video (da remoto od in sincrono). Approfondisce quanto la forma ed il contenuto nella comunicazione digitale siano ancora più interconnessi.

Conseguentemente evidenzia quanto l’aver consapevolezza di ciò, di questi nuovi aspetti, delle peculiarità sia della comunicazione che del mezzo tecnologico, debbano incidere creano un nuovo modello comunicativo pensato ad hoc per l’on-line, per riuscire ad utilizzare con etica la persuasione digitale.

#dRzOOm: per zOOmmare insieme

Queste tematiche, pur apparentemente lontane, toccano invece da vicino ognuno di noi.

Noi stessi viviamo immersi in questi ambienti.

La nostra famiglia e la nostra impresa devono fare i conti con questo nuovo contesto relazionale.

Per questo il #dRzOOm ha dedicato questo primo approfondimento.

Il suo scopo è appunto quello di portare tematiche apparentemente lontane vicino al cuore delle persone al fine di generare quella consapevolezza che consente di affrontare le nuove sfide in modo proattivo senza subirle come uno struzzo.

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CPeF: cos’è la Famiglia?

Nella mia esperienza internazionale mi sono sempre accorto che la famiglia italiana possiede delle peculiarità che rappresentano sia la sua forza sia la sua debolezza: legami familiari radicatissimi che tuttavia complicano le dinamiche relazionali.

La capacità relazionale per i membri della famiglia italiana dunque è una delle necessità imprescindibili sia per l’aspetto di serenità (individuale e familiare), sia per l’aspetto della gestione efficace del patrimonio e del family business.

Nella CP&F quindi:

FAMIGLIA = DIRITTI & DOVERI + ASPETTATIVE + VISIONE & CONDIVISIONE !

Infatti, se parliamo di Consapevolezza, che vi ricordo essere originata dalla conoscenza, non possiamo prescindere dalla razionalizzazione di ciò che è diritto e dovere del singolo membro familiare per poi analizzare le singole aspettative minimizzandone la conflittualità ed incrementandone il valore aggiunto mediante il processo di visione e condivisione.

Il primo passo da fare? Avere chiari quali sono i diritti ed i doveri dei membri della famiglia:

DIRITTI & DOVERI = PROPRIETA’ + GODIMENTO + TRASFERIMENTO!

La proprietà di un bene, giuridicamente, rappresenta la facoltà di godere e disporre di esso pienamente ed in esclusiva entro i limiti normativi vigenti mentre il godimento rappresenta la possibilità di beneficiare di tale bene ma è limitato dalla preventiva volontà in merito del proprietario.

Un familiare può godere del bene solo ed esclusivamente su volontaria concessione da parte del proprietario, ma non può vantarne di sua iniziativa diritti in merito.

Le norme concernenti il trasferimento del bene accolgono sia gli atti a titolo oneroso (vendite, acquisti, permute, trasformazioni della singola componente patrimoniale in altra, …) sia gli atti a titolo gratuito in vita o mortis causa (liberalità, donazioni, vincoli di destinazione, successione).

Anche il cosiddetto diritto successorio non esiste “di per sé” ma nasce solo ed esclusivamente al momento del decesso da parte del proprietario che, infatti, in vita può disporre pienamente di tutto il suo patrimonio anche in modo gratuito a favore di terzi, ovviamente salvo la lesione volontaria di diritti meritevoli di tutela (par condicio creditorum, quote di legittima, assegno divorzile, …).

La conoscenza della normativa di riferimento della proprietà, del godimento ordinario (o beneficio) e del trasferimento patrimoniale genera sicuramente minori equivoci, incomprensioni e conflittualità che, generalmente sono originati da aspettative diverse.

Proprio per questo occorre raggiungere anche una consapevolezza in merito ad esse:

ASPETTATIVE = INDIVIDUO + FAMIGLIA + IMPRESA!

La famiglia è un insieme speciale di persone con un’individualità specifica e legittima ed una propria peculiarità relazionale. Sembrano delle banalità, ma sono le fondamenta per minimizzare le conflittualità interpersonali.

Partendo dal presupposto che il cervello utilizza dei filtri per selezionare i miliardi di input derivanti dal contesto e che quindi non esiste “una” realtà ma solo le varie “interpretazioni della realtà” e che esse sono quindi tutte legittime e degne di considerazione, per evitare conflittualità bisogna dedicare del tempo al dialogo per condividere il numero maggiore possibile di informazioni.

Inoltre ogni persona ha una propria biostruttura che influenza sia il suo comportamento come individuo (il suo modo di essere, le sue limitazioni, le sue potenzialità) sia il suo comportamento relazionale (aperto, dominante, distaccato).  La consapevolezza individuale in questo ambito determina una serena analisi e condivisione delle proprie ed altrui aspettative.

Ovviamente le aspettative del singolo membro della famiglia sono di tipo individuale e mutano nel tempo in funzione delle sue esperienze mentre la famiglia rappresenta (o dovrebbe rappresentare) l’insieme di tutte le singole aspettative. In questo senso entra in gioco la consapevolezza circa il bene individuale ed il bene comune, le sinergie, la priorità degli obiettivi (comuni e non), il processo di delega, l’autonomia, l’indipendenza e l’interdipendenza.

Infine, le aspettative della famiglia impattano sicuramente nelle aspettative del family business. La singola impresa di proprietà familiare risente, volente o nolente, non solo della tipologia di relazioni interfamiliari ma anche di come la famiglia stessa interagisce con i propri stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti).

Per migliorare le relazioni in modo da ottimizzare l’efficacia del family business quindi evidenzio l’estrema importanza della visione e condivisione:

VISIONE & CONDIVISIONE = VALORI + COSTITUZIONE + CONSIGLIO!

Innanzitutto si deve ripartire dai Valori Guida individuali da condividersi con la famiglia ed in impresa. Ovviamente, per incrementare il valore aggiunto di ogni membro, si deve condividere tali valori sia in termini divulgativi che in termini di accettazione.

Tali valori rappresentano la base della “Costituzione” (della famiglia e/o dell’impresa) che consiste nella razionalizzazione del Perché, del Cosa e del Come la famiglia (o l’impresa) esiste ed agisce. Essa è il faro nei momenti di tempesta! Così come i Valori Guida, anche la Costituzione dev’essere condivisa al fine di generare impegno e valore aggiunto da parte di tutti i partecipanti.

Infine, tutto questo processo si consolida periodicamente all’interno del “Consiglio” (di famiglia o d’impresa) all’interno del quale si affrontano le tematiche di efficacia: strategia, innovazione, implementazione, azione, controllo.

Non è affatto facile passare da un modus operandi di “imposizione” a quello di “condivisione”, ci vuole tempo e dedizione per maturare dentro di se e negli altri la giusta Consapevolezza, ma il risultato è enormemente efficace e si può sintetizzare in serenità e valore!